Abitare i Confini

di Luca Cascone

In questa settimana, particolarmente intensa per me e per molti altri, ho considerato a lungo il concetto di confine: in molte consulenze e in diversi eventi della vita privata, ho incontrato l’esigenza di riflettere profondamente sulla sua importanza.
Ho già scritto, l’anno scorso, un articolo su questa materia, soffermandomi soprattutto sugli aspetti relazionali dei confini, e degli spazi prossemici in cui viviamo quotidianamente. Questa volta, avevo necessità di concentrarmi sugli aspetti dei confini che riguardano l’autodisciplina e il nostro stesso modo di percepirci.
Come faccio spesso, ho cercato un aforisma che mi ispirasse, e ho letto queste parole:

“I sani confini non sono muri. Sono cancelli e staccionate che ti permettono di godere della bellezza del tuo giardino“.
[Lydia Hall]

Mi ha colpito un’intuizione che aleggiava da alcuni giorni, complici alcune esperienze che mi hanno aperto uno spazio di riflessione: ci sentiamo spesso in balia degli eventi, senza una reale capacità di mutare il corso delle nostre vite, invasi e compressi dal resto del mondo con le sue richieste, aspettative e pretese, ma la verità è che il più delle volte rinunciamo a prenderci la responsabilità di decidere in piena consapevolezza quali sono i confini che nutrono e difendono la nostra integrità e il nostro benessere.

Immaginiamo la nostra vita come un insieme di bolle una dentro l’altra: dalla più vicina, che contiene noi e le nostre relazioni più intime, alla più lontana, che contiene il mondo che appena ci sfiora, tutto ciò che ci attraversa lo fa perché si inserisce nel nostro sistema percettivo, con gradi e intensità diverse a seconda dell’intimità che concediamo.
Anche quando non li percepiamo, i confini definiscono la nostra disponibilità e i rapporti che viviamo: non tutti possono toccarci fisicamente allo stesso modo, per esempio accarezzandoci, e nemmeno baciarci; è un privilegio di pochi. Allo stesso modo, alcune persone possono parlarci confidenzialmente e in modo diretto, e con altri intratteniamo rapporti più formali. Alcune parole o espressioni ci toccano di più, mentre altre non sono per noi motivo di riflessione o di disagio. Alcuni fenomeni naturali ci fanno più paura (ovvero irrigidiscono i nostri confini), mentre altri sono fonte di piacere (li ammorbidiscono e ci rendono disponibili).

Il confine emerge di concerto tra ciò che noi siamo disposti a concedere, e l’obiettivo che l’interlocutore è intenzionato a raggiungere.
Spesso siamo portati a credere che essere disponibili significhi non stabilire confini, ma non ci potrebbe essere idea più fuorviante: è proprio senza stabilire confini che ci esponiamo a subire tutto ciò che ci accade come incontrollabile, traumatico e distruttivo.
Esattamente come un bambino necessita di confini e di disciplina, oltre che della soddisfazione degli altri bisogni primari, per crescere e diventare un adulto responsabile, allo stesso modo la nostra vita ha bisogno di confini, per essere vissuta davvero e in profondità.

Un esempio che faccio spesso: se il mio interlocutore estrae un coltello intenzionato a farmi del male, io ho tutto il diritto di difendermi. Il come sarà una questione di capacità e di scelte: i grandi Maestri hanno fermato la violenza con la loro sola presenza (vi invito a cercare gli episodi del Buddha con il criminale Angulimala che divenne Ahimsaka, o di Gesù con i soldati che attaccarono gli apostoli nell’orto del Getsemani), altri, meno carismatici, usano la loro forza per disarmare l’avversario senza danneggiarlo, e altri ancora, molto meno carismatici, impugnano a loro volta le armi e ingaggiano la lotta.
Qual è il mio confine?
Se sta nel non alimentare la violenza, sceglierò la seconda soluzione. Se sta nella difesa personale, potrò lottare e rischiare di danneggiare me o il mio opponente.

Un altro esempio: se mi mettono a disagio, non è necessario che io accetti certi tipi di contatto fisico. Non mi riferisco solo a contatti particolarmente abusivi, ma anche a certi confini sociali che non sono assolutamente scontati: personalmente, sono una persona che abbraccia molto facilmente, ma se ho uno sconosciuto di fronte, sto molto attento a chiedere il permesso (non solo verbalmente). Non è affatto scontato che l’altra persona sia disposta ad accettare un contatto così stretto, anche se per me è assolutamente naturale.
Qual è il confine che devo rispettare?
Non sarebbe saggio imporre il mio modo a chi non lo gradisce, poiché da gesto gentile diventerebbe una violenza. In una situazione del genere, posso portare la stessa qualità nelle mie parole?

Immaginate ora che il vostro spazio sia quello della citazione che mi ha ispirato: un meraviglioso giardino, da curare con grande attenzione. Se non aveste un confine, quanto passerebbe prima che animali affamati, persone di passaggio ed elementi naturali incontrollati devastino il giardino, rendendolo un ammasso confuso di terra sterile e incurata?
Al contrario, come potrebbe crescere rigoglioso se lo chiudeste completamente all’esterno, escludendo gli uccelli e il vento che portano semi, le api che fanno circolare i pollini, il calore del sole che dà vita ai semi, o la pioggia che dona forza alla linfa?
È quello che succede molto spesso alle nostre vite: a volte mettiamo confini troppo netti, che inaridiscono le nostre relazioni e i nostri rapporti, e rendono difficile lo scambio; a volte, al contrario, non mettiamo confini, e permettiamo a chiunque di entrare nel nostro spazio intimo e di depredarlo, lasciandoci spogli e sfibrati, e vaghiamo alla ricerca di altri spazi che trattiamo allo stesso modo.

Stabilire sani confini è necessario alla vita: significa curare il giardino con amore e dedizione, scegliendo a quale distanza e con quale forza tenere fuori le influenze negative, e permettendo a chi lo nutre di entrare nello spazio, attraverso i cancelli che noi stessi decidiamo di aprire e chiudere.
Questo vale in ogni ambito della nostra vita, da quello fisico, a quello relazionale, a quello professionale: solo costruendo i giusti spazi e curandoli con attenzione possiamo vivere davvero pienamente, nel massimo rispetto della nostra natura e di quella altrui.
Abitare i confini significa stare nello spazio del confine stesso, scegliendo di volta in volta quale sia la sua posizione migliore, chi o cosa può entrare, e chi o cosa no: è un esercizio continuo di consapevolezza e di dialogo tra noi e il mondo, nella mutua ricerca del migliore stato di Equilibrio e di Benessere.

La Medicina Tradizionale tra olismo e olografia

di Luca Cascone

In molti contesti professionali che riguardano la salute e il benessere, dai più formali ai meno definibili, si è ormai diffuso in modo capillare il termine olistico, assumendo i più disparati significati e giustificando le più disparate pratiche. E, diciamolo pure senza remore, scadendo di significato e perdendo il suo originario potere. Per questo alcuni, per reazione, cominciano ad evitare il termine, distaccandosi da logiche superficiali che – assai spesso – danneggiano l’aspirazione che è stata racchiusa in questa difficile e maltrattata parola.

Il fatto di trovare un altro termine senza fermarci e interrogarci su questo fenomeno potrebbe metterci al riparo dallo scadere in una definizione potenzialmente pericolosa, certo, ma non va nel profondo della questione.
Partiamo dalla parola: “olistico”, aggettivazione di “olismo”, derivato da ὅλος (hòlos, “globale, totale”), compare per la prima volta come parola negli anni 20 del secolo scorso (J. Smuts, “Olismo ed Evoluzione”), sebbene le sue radici concettuali siano riconducibili a tempi ben più antichi in Occidente, e sicuramente in Oriente dove gran parte dei sistemi filosofici si basa sull’assunto (olistico, appunto) che un sistema non sia riducibile alla somma delle parti che lo compongono, ma debba essere visto nell’interezza della sua complessità.
Questo è l’assunto di base di ogni visione olistica, che per sua storia si contrappone, in qualche modo, ad una visione meccanicistica e riduzionistica di un qualsiasi sistema (in genere biologico): in parole povere, chiunque applichi questa idea al sistema-uomo ritiene che non basti spiegare “fenomeno uomo” in termini di aggregati di cellule, tessuti, fluidi, muscoli, articolazioni, organi, e meccanismi, pur sempre più raffinati fino ad arrivare alle strutture mentali, psichiche e – perché no – oltre. Ci deve essere “qualcosa in più” che dia il senso della complessità e delle relazioni tra le strutture, di una “teoria del tutto” che non riduca l’uomo a un omino di Lego, per quanto raffinati siano la progettazione, la realizzazione e l’assemblaggio delle parti.

Fin qui, non ci sarebbe niente da dire: è una prospettiva affascinante, dal mio punto di vista del tutto condivisibile in termini di pensiero intuitivo (per dirla con Jung), e che riporta immediatamente un sapore rinascimentale alla vita odierna.

L’ostacolo è, inevitabilmente, la realtà delle cose.
Posta l’innegabile natura “olistica” di un qualsiasi sistema, che alla somma della parti aggiunge il “più” del processo di metterle in relazione tra loro e con l’ambiente (il “tutto”) secondo una sua propria forma di “autonomia” e “coscienza” (cfr. olismo ontologico, teoria dei sistemi), non è possibile dall’esterno avere completa conoscenza di ogni parte e ogni relazione al suo interno: qualsiasi forma di conoscenza olistica di un sistema è quindi ascrivibile solo ad un sovra-sistema che contenga il sistema stesso, per cui si potrebbe azzardare il nome di coscienza collettiva.
Traslando il tutto nel contesto della salute, ogni persona-operatore che si approcci a una persona-cliente/paziente/utente (la scelta dei termini è di tipo contestuale e legale), inevitabilmente non sarà in grado di cogliere quel “tutto”, perché il suo sguardo sarà per forza di cose limitato: su tutti i piani, possiamo solo approcciarci a un’altra persona (ovvero ad un altro sistema) come singoli punti di osservazione, limitati e orientati da parametri fisici, emozionali, psichici. Il mondo “olistico” troppo spesso ha tradito la sua vocazione usandola come travestimento per potersi occupare di tutte le sfere dell’umano a piacimento dei singoli operatori, molto e troppo spesso senza nemmeno avere idea di quali queste siano, e di come (apparentemente) funzionino. Facendo ciò, non ha fatto altro che avvalorare l’idea che l’intero approccio non sia nient’altro che pseudoscienza e tuttologia da ciarlatani.

Per questo ultimamente, sono portato a pensare che sarebbe più saggio spostarsi semanticamente sulla definizione di olografia.
Un ologramma è per definizione una stratificazione di diverse immagini bidimensionali di un oggetto in una tridimensionale, ottenuta tramite l’impiego di un laser, che impressiona l’immagine tridimensionale su una lastra bidimensionale. Visivamente, un ologramma ha la particolarità di contenere, in ogni propria parte, l’informazione di tutta l’immagine: tagliandolo in due parti, infatti, entrambe mostreranno l’intera immagine immagazzinata nella lastra.

Questo è un concetto molto interessante se si pensa alle professioni che si occupano della relazione d’aiuto, in tutte le sue forme: ognuna ha un suo sistema di riferimento, e si basa su logiche e mappature proprie del fenomeno-uomo, che hanno però dei limiti, anche consistenti. Ogni professione o specializzazione, infatti, vede una “fetta” dell’ologramma e, se ha una caratteristica olistica, la utilizza per leggere l’intero ologramma a partire dalla propria visione.
A pensarci bene, questo approccio è l’esatto contrario, ontologicamente ed epistemologicamente parlando, di quello utilizzato dalla medicina moderna occidentale nel suo sistema di specializzazione, dove uno specialista legge il sistema umano nei limiti della propria competenza, demandando ad altri la lettura di altre aree o funzioni: questo porta a una continua frammentazione delle cure, che non tiene conto della necessità di ricostruire l’ologramma.
Ma l’olismo come normalmente lo intendiamo non la supera, anzi le si contrappone soltanto con forza uguale e contraria.

Il problema di fondo è che non si può ricostruire l’ologramma presumendolo a partire da un solo punto di vista, ovvero ciò che accade ormai molto frequentemente nel campo olistico: questa non è altro che l’altra faccia della specializzazione.
Di una cosa sono molto sicuro: non è questa la strada per recuperare l’integrità nell’esperienza della cura. Di contro, non ho una ricetta per risolvere il problema, ma una prospettiva: affidarsi a una logica transpersonale e trans-posizionale.

Un primo livello di questa prospettiva è la collaborazione. Un singolo professionista “vede” l’ologramma-persona a partire da un punto di vista, che ne determina i percorsi di analisi e le strategie che proporrà per risolvere un problema o aumentare il benessere e l’integrità della persona. Ma per quante competenze possa accumulare, ci sarà sempre una parte dell’ologramma che potrà solo “intuire” tridimensionalmente dal proprio punto di vista, e che invece un altro professionista vedrà in modo più nitido, a partire dal proprio. La vera collaborazione tra i due (e non il continuo rimbalzare da uno studio all’altro) è costituita dal mantenere lo sguardo puntato sulla tridimensionalità, pur muovendosi ognuno nella propria fetta di ologramma. Non si tratta di confrontare le rispettive visioni, ma di guardare allo stesso obiettivo pur da angolazioni diverse.

C’è un secondo livello, più complesso: è quello centrato sull’esperienza della persona che richiede aiuto (etimologicamente, il cliente). Come abbiamo detto, è solo dall’interno del sistema che si possono esperire tutte le caratteristiche e le necessità di quel sistema. Ne consegue che passare dalla semplice partecipazione della persona al proprio processo di cura e alla propria storia di malattia (come si chiama in Medicina Narrativa) al suo effettivo riprendere il ruolo di protagonista è fondamentale per orientare il processo stesso, attraverso il continuo monitoraggio dall’interno, e non – come spesso succede – per aggiungere un tassello alla mole di specializzazioni a cui una persona si può rivolgere, magari nello stesso specialista.

Infine, c’è un terzo livello, che custodisce il senso profondo dell’ologramma: la relazione, base e sostegno del triangolo che si instaura tra paziente e terapeuta, vede come suo vertice il , la versione più pura dell’ologramma. A questo livello si accede solo se da parte del professionista la specializzazione lascia il posto alla visione più ampia del Servizio, e se l’occhio clinico, che vede caratteristiche peculiari di fenomeni conosciuti, lascia spazio alla visione simbolica, che si astrae dalle singole manifestazioni della realtà, riconducendo e includendo la persona e il terapeuta in un ambito più grande, quello della Creazione stessa che si ripercuote e si rinarra ogni volta che entriamo a contatto con la realtà.
Allo stesso tempo, per accedere a questo livello è necessario che la persona prenda coscienza della propria responsabilità totale nel processo, senza delegarla ad altri. In definitiva, infatti, per le Medicine Tradizionali non esiste il “guaritore” in senso stretto, ma esiste la persona che ti può accompagnare verso la guarigione (etimologicamente, il terapeuta).

Ogni parte di noi è inclusa in un sistema più grande, ma è allo stesso tempo la rappresentazione esatta di un macro-cosmo che vi si riflette pienamente e totalmente dentro: in questo grande labirinto ci si perde molto di frequente.
Come potrebbe una singola mappa, per quanto dettagliata, racchiudere tutte le informazioni di un Universo?

La Medicina Tradizionale in tutto il mondo vive e respira di questa continua connessione, cercando di renderla il più possibile viva e presente. Non è un tentativo di scappare dalla realtà, ma al contrario di includerla nel grande movimento della danza cosmica, senza ridurla a un mero meccanismo, e nemmeno pensare che le sue funzioni siano solo espressione di rapporti coordinati all’interno di un unico sistema. La realtà è un grande calderone in cui ogni più piccola parte contiene l’informazione di tutto il sistema, dell’interna Coscienza Universale che possiamo chiamare Dio.
Eppure, la gran parte di questo calderone è buia e oscura: è a tutti gli effetti un Mistero.

È solo recuperandone pienamente questa caratteristica che possiamo uscire dalla trappola della convinzione che vedere la complessità significhi vedere tutto in modo generale, contrapponendolo al vedere solo una cosa in modo molto approfondito.
La visione della complessità dell’ologramma può essere rispettata solo accettandone il Mistero, e non cercando di sovrapporre al territorio una o più mappe, per quanto complesse, stratificate o dettagliate.
Altrimenti, si sta solo declinando l’errore condiviso della nostra società, la convinzione di poter vedere, conoscere e sapere tutto, in modi apparentemente contrapposti, allontanandosi dalla possibilità di accogliere la complessità e mettersi al suo Servizio in modo incondizionato, accettando di non conoscere tutti i risultati che le nostre azioni produrranno, ma avendo piena Fede che saranno guidati e prodotti da un’intelligenza infinitamente più saggia, complessa e lungimirante della nostra.

Andrew Taylor Still, fondatore dell’Osteopatia, che molti credono essere un ciarlatano meccanicista, aveva entrambi gli occhi molto ben aperti su questo Mistero, e gli sono attribuite parole che riassumono perfettamente la mia riflessione:

“Io amo i miei pazienti, poiché vedo Dio nei loro volti e nelle loro fattezze”.

Tutto ciò che si allontana da questo grado di complessità, è solo un tentativo di mettere al sicuro il proprio ristretto campo visivo, senza affidarsi all’infinita conoscenza della Natura universale.

Holistic Experience 2022

Continua la collaborazione con Fondazione Oasi con un evento che si estenderà per tutta l’estate del 2022: ogni mercoledì alle 19 apriremo i cancelli a chiunque vorrà raggiungerci per un’esperienza all’insegna del benessere, della comunità e della bellezza.
Sette laboratori continuativi e workshop esperienziali apriranno la serata tra yoga, pratiche sonore, consapevolezza corporea e meditazione.
La serata continuerà alle 21 con un aperitivo sulla terrazza panoramica, accompagnato da concerti, conferenze e cinema.

Il nostro impegno, insieme a Fondazione Oasi, è quello di fornire a tutti un servizio di qualità, con professionisti selezionati e capaci, in grado di guidarvi in esperienze di grande impatto sulla salute personale, sociale e ambientale: Holistic Experience è un evento unico nel suo genere nel nostro territorio e in tutta Italia.

Dalle 19.30 di ogni mercoledì sera fino al 21 settembre, saremo presenti con due laboratori esperienziali.
Qui sotto e sulle pagine di Fondazione trovate tutte le informazioni essenziali.
Vi aspettiamo per i laboratori e per passare una piacevole serata insieme, ammirando il tramonto dal magnifico panorama del Parco.


A Corpo Libero con Nicoletta (6 luglio – 21 settembre)

A partire dall’esplorazione sensoriale di un’area corporea, i partecipanti vengono condotti alla sua integrazione nel sistema dinamico dell’intero corpo, e nelle relazioni che esso intreccia con gli altri e l’ambiente. L’attività, accompagnata dalla musica, permette un’immersione profonda e sicura, per promuovere libertà di movimento e di espressione.
A chi si rivolge: a tutti, non è necessario essere allenati poichè l’attenzione sarà alle possibilità ed alle qualità di movimento e percezione disponibili nell’adesso, per giungere ad una nuova consapevolezza e sensibilità dei corpi che abitiamo.
Occorrente: abbigliamento comodo, acqua, tappetino o telo


InCanto con Luca (13 luglio – 21 settembre)

Laboratorio di sperimentazione vocale e benessere sonoro.
13 luglio – “Suoni Primi”: iniziamo il percorso esplorando la nostra voce come farebbe un bambino, nel gioco e nella semplicità dell’esperienza, a contatto con l’ambiente naturale, con il corpo e con il Cerchio.

A chi si rivolge: a tutti coloro che sono interessati a scoprire il potere e le capacità della propria voce. Non è necessaria una pregressa esperienza vocale, solo voglia di sperimentarsi.
Occorrente: abbigliamento comodo, acqua, tappetino o telo, cuscino se preferito.

A Corpo Libero: “I Piedi, il contatto con la Terra”

di Nicoletta Giancola

Il laboratorio di movimento chiamato “A Corpo Libero” nasce dall’idea di proporre un vero e proprio momento di movimento consapevole.

Quando si fa attività di movimento accade spesso che ci si ritrova a rincorrere i movimenti proposti senza aver tempo di ascoltare il corpo, e pretendendo che esso ci segui nella nostra idea di come vorremmo si muovesse. Se questa situazione è accompagnata da musica ad alto volume questa non ci permette di entrare dentro l’esperienza che alla fine risulterà più performativa e di scarico che di ascolto e cura.

Con le attività proposte all’interno di questo laboratorio, che seguono temi legati alle parti corporee o alla sua fisiologia, si vuole portare il partecipante a sperimentare un nuovo modo di fare movimento: quello di essere consapevoli sia nel farlo sia in ciò che il corpo vive e può fare durante. Vengono riconosciute così le connessioni che una parte del corpo ha con tutto il resto per giungere ad una sensazione di appagamento e integrità che, una volta sperimentata, sarà possibile portarla con sé nella vita quotidiana, perché avremo con noi il senso del come e non del cosa muovere.

Questa sera, in occasione del Solstizio d’estate, andremo a sperimentare la connessione che i piedi hanno con la terra. Essi ci fanno da base per poter percepire la gravità e la “messa a terra”, la stessa degli impianti elettrici.

I piedi sono infatti collegati al primo chakra, il chakra della base o della radice. Attraverso questo centro energetico sentiamo il corpo nella sua parte più fisica e lavorare sulla connessione attraverso i piedi ci riconsegna la possibilità di sentirci più ancorati alla terra e quindi ci sentiamo più dentro il nostro corpo, letteralmente più incarnati. 

Il risultato di questo? 

Una rinnovata capacità di sentire e sentirci e così la possibilità di ricollegarci a ciò che la nostra anima attraverso il suo veicolo, la macchina biologica, vuole comunicarci.

Un corpo libero di sentire è un corpo nuovo a cui non siamo più abituati e spesso può farci sentire cose che non ci piacciono o ci fanno stare male, ma è la via che l’anima ha per farsi ascoltare.

Il nostro compito è quello di condurvi alla comprensione dei suoi messaggi dopo avergli restituito la libertà di espressione e di movimento.

Che l’energia del sole possa sostenervi in questa scoperta.

Buon Solstizio a tutti e a stasera!

Ciò che possiamo essere al nostro meglio

di Luca Cascone

Il 17 febbraio è una data da ricordare per molti motivi: nel 1652 muore Gregorio Allegri, ed esattamente un anno dopo nasce Arcangelo Corelli, nel 1867 viene per la prima volta attraversato il canale di Suez, nel 1929 nasce Alejandro Jodorowsky, nel 1980 viene proiettato per la prima volta C’era una volta in America, nel 1990 viene istituita in Italia la festa del gatto, nel 1998 muore Marie-Louise Von-Franz, e tante altre amenità.
Per inciso, nel 1600 in Campo dei Fiori a Roma succede che un tale, di nome Giordano Bruno, nato Filippo, originario di Nola, filosofo, sapiente e frate domenicano, venga imbavagliato con una briglia di ferro affinché non possa parlare, e arso vivo sul rogo per il peccato di eresia.

È un racconto comune, quello di un mondo in cui i dissensi e le divergenze vengono risolti con la violenza. I libri di storia sono pieni di questi esempi, e le occasioni di dialogo sono ridottissime, come piccole candele in un mare di buio. Bruno divenne fisicamente, a dispetto dei suoi accusatori, una torcia accesa in nome della libertà di pensiero e della coerenza con il proprio sentire profondo: trovandosi davanti a chi non voleva ascoltarlo – più volte asserì che il suo pensiero non era in contrasto con la dottrina, ma era tanto radicale da minarne profondamente le basi, e la convinzione di coloro che lo processarono – preferì la morte atroce delle fiamme, più che smentire ciò che credeva e insegnava su Dio, sulla Natura e sulle qualità dell’anima.

Molte volte ci troviamo di fronte a piccole, ma identiche sfide: a volte siamo noi a rifiutare il dialogo, e a volte lo cerchiamo disperatamente, ma dall’altra parte abbiamo qualcuno che, semplicemente, nella maggior parte dei casi ha troppa paura per ascoltare. E dalla paura, si sa, non possono che nascere rabbia, frustrazione, violenza e negazione.
Da qualche giorno mi rimbalzano tra la mente e il cuore le parole di Jim Forest, scrittore e teologo cristiano, grande sostenitore dei movimenti pacifisti e amico di Thich Nhat Hanh, monaco buddhista vietnamita che accompagnò nei suoi discorsi ed eventi in America tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Della loro collaborazione si può leggere nel libro “Eyes of Compassion: Learning from Thich Nhat Hanh”, di cui riporto la traduzione di un passo.


Una sera, in una grande chiesa Protestante di St. Louis, dove Thich Nhat Hanh stava tenendo un discorso, un uomo si alzò nel momento riservato alle domande, e parlò con tagliente sarcasmo della “supposta compassione del Signor Hanh”. Chiese: “Se Le importa così tanto della sua gente, Signor Hanh, perché è qui? Se Le importa così tanto delle persone che vengono ferite, perché non passa il Suo tempo con loro?”
Quando l’uomo ebbe finito, guardai verso Thay, stupito. Che cosa poteva dire, e cosa avrebbe potuto dire chiunque? Lo spirito della guerra aveva improvvisamente invaso la chiesa. Si respirava a malapena.

Ci fu un lungo silenzio. Poi Thay cominciò a parlare, con calma, quiete, e con un senso di personale attenzione per l’uomo che lo aveva appena bombardato. Sembrò che le parole di Thay fossero acqua che piove sul fuoco. “Se vuole che un albero cresca”, disse, “non ha senso annaffiare le foglie. Dovrà annaffiare le radici. Molte delle radici della guerra nel mio Paese sono qui, nel Suo Paese. Per aiutare le persone che vengono bombardate, per tentare di proteggerle dalla sofferenza, è necessario venire qui”.
L’atmosfera nella stanza si era trasformata. Nella furia dell’uomo avevamo sperimentato la nostra stessa furia. Avevamo visto il mondo attraverso un campo minato. Nella risposta di Thay avevamo sperimentato un’opzione alternativa: la possibilità – portata a Cristiani da un Buddhista, e ad Americani da un “Nemico” – di oltrepassare l’odio con l’amore, di rompere l’apparente inesauribile catena di reazioni violente.

Ma dopo questa risposta, Thay sussurrò qualcosa al presentatore e uscì d’improvviso dalla stanza. Sentendo che qualcosa non andava, lo seguii fuori. Era una notte chiara e fresca. Thay stava in piedi nel vialetto di servizio, a fianco del parcheggio della chiesa. Stava lottando per respirare, come qualcuno che fosse stato sott’acqua e fosse appena riuscito a nuotare in superficie prima di affogare. Non lo avevo mai visto così. Impiegai molti minuti prima di osare chiedergli come stesse, o cosa gli fosse successo.
Mi spiegò che i commenti dell’uomo lo avevano terribilmente scosso, e che era stato tentato di rispondere con rabbia. Invece, si era imposto di respirare profondamente e molto lentamente, per trovare un modo di rispondere all’uomo con calma e comprensione. Ma il respiro era stato troppo lento e troppo profondo.

“Ma perché non arrabbiarsi?”, gli chiesi. “Anche i pacifisti hanno il diritto di arrabbiarsi”.

“Sì, se fosse stato solo per me”, disse Thay. “Ma sono qui per rappresentare i contadini del Vietnam. Ho il dovere di mostrare a coloro che sono venuti qui stasera ciò che possiamo essere al nostro meglio”.


Il messaggio è chiaro: la retorica della guerra non porta a nulla, se non ad altra guerra, violenza, e sofferenza. Succede più spesso di quanto pensiamo: ogni giorno la sento nella voce di chi mi parla del dolore, della sofferenza, o della malattia.
Il dolore va contenuto, eliminato, o spento. Forse ci si convive, ma quasi mai lo si accetta o comprende.
Della sofferenza si parla con rifiuto, negazione, allontanamento. È raro trovare qualcuno che la abbracci, o che cerchi di prendersene cura.
La malattia va sconfitta, contro di essa si vincono battaglie e guerre, è un nemico da abbattere. È ancora spesso utopico che la malattia ci racconti qualcosa di noi, o che sia una via per guarire.

In questi ultimi anni abbiamo tutti fatto esperienza, a volte inconsapevole, di questo linguaggio, e delle conseguenze degli stati mentali, emotivi e fisici che esso comporta. Si cerca sempre un nemico, qualcosa o qualcuno da sconfiggere, per evitare di prendersi cura dell’unica cosa che ci separa davvero dal mondo e dai nostri simili, e in definitiva da noi stessi: la sofferenza di non comprendere, di sentirsi diversi, a volte perfino di sentirsi in pericolo. Siamo perennemente immersi in uno stato di sopravvivenza che ci spinge a trovare colpevoli, ad attaccare, a difendere confini che sono solo immaginari, muri che ci battiamo con le unghie e con i denti per non abbassare.

Eppure abbiamo la chiave sempre a portata di mano: riconoscere le reazioni dentro di noi, sapercene distaccare e sceglierle in base al contesto, e saper scegliere sempre l’amore in azione nei nostri gesti, parole, e pensieri. Jim Forest e Thich Nhat Hanh, dopo aver dedicato la vita a questo messaggio, hanno lasciato il proprio corpo fisico a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, nel gennaio 2022, ma ci continuano a dare, forte e chiaro, un messaggio di grande speranza: è attraverso il riconoscimento dentro di noi della dinamica della guerra, e attraverso la sua pacificazione che possiamo davvero cambiare le cose. Nessuna guerra si vince all’esterno, se non nella pace che viene da dentro. Dal cuore di quella pace, che è amorevole cura e attenzione, comprensione, dialogo e ascolto reciproco, vero contatto, possiamo oltrepassare tutte le differenze che apparentemente ci dividono, senza negare le nostre posizioni, ma trovando ciò che ci accomuna e aiutandoci l’un l’altro a superare la sofferenza.

Altrimenti, sarà sempre e solo guerra, e non conosceremo mai ciò che possiamo essere al nostro meglio.

Gli Spazi del Rispetto

“La bellezza del cerchio è che non possiamo guardarci alle spalle, e la forza del cerchio è che possiamo solo vedere la bellezza di ognuno”.
(Angaangaq Angakkorsuaq)

Il concetto di rispetto è utilizzato in varie forme nella nostra società, in maggioranza legate alla capacità di avere riguardo per il nostro prossimo. È infatti il guardare a fondo, e quindi curarsi di, a costituirne il maggior significato.
La parola è infatti collegata alla facoltà umana di osservare e valutare in profondità: la parola latina respectus, da cui deriva, è infatti un composto che mette in relazione la particella re- (a fondo, di nuovo), e del verbo spicere, che porta con sé il significato di osservare, considerare, guardare, ed è strettamente collegata a diverse parole che hanno a che fare con queste facoltà. Rispetto, specchio e scopo hanno infatti la stessa provenienza, rintracciabile nella radice indoeuropea SPAC- che ha prodotto spicere (guardare) – da cui rispetto e specchio – e σκοπός (osservatore) – da cui scopo. Curiosamente, dalla stessa radice deriva σκέπτομαι (considerare) – da cui scettico, ovvero uno che osserva, che specula.
La stessa parola specie, a cui il latino species riconosce il significato di forma, apparenza, conformazione, deriva da questa area: le parole derivate dalla radice SPAC- (o SPEC-) hanno a che fare con la capacità di vedere, riflettere, considerare qualcosa o qualcuno in modo profondo e preciso, ovvero non grossolano, avventato o parziale.
Il rispetto è per lo più considerato come la capacità di essere consapevoli delle caratteristiche di una persona, di una cosa o di un contesto, osservandone per così dire le regole proprie, senza scavalcare i loro confini.

Da un punto di vista del corpo sociale, l’essere umano si può riconoscere in diversi spazi in cui vive diverse sfumature di esperienza: come già sottolineato dall’antropologo Edward T. Hall negli anni ’60, esistono diversi e variabili spazi prossemici (da proximitas, vicinanza), che delineano il nostro vissuto sociale. A grandi linee, almeno nella cultura occidentale, possiamo identificare quattro fasce di spazio, in cui all’accorciarsi della distanza aumenta il grado di intimità, e diminuiscono gli altri che vi hanno libero accesso: un primo di tipo pubblico, dai 3 ai 7 metri di distanza dal nostro corpo; uno sociale, da 1 a 3 metri; uno personale, da 40 cm circa a 1 metro; e uno intimo, al di sotto dei 40 cm fino al contatto diretto.
In base al contesto, alla natura della relazione tra gli interlocutori e alla cultura di appartenenza, le distanze possono variare o modularsi, ma restano importanti nello stabilire la qualità della relazione interpersonale, nel valutarne rischi e benefici, e nel modulare il comportamento fisico, vocale, e psichico.
Ogni relazione – anche quella terapeutica – si muove in qualche modo attraverso questi spazi, preferendone a seconda dei propri scopi e delle proprie modalità uno o molti. Le discipline corporee, ad esempio, ognuna a suo modo, hanno maggiormente a che fare con lo spazio intimo e quello personale, rispetto alle discipline basate sul dialogo, che spesso si svolgono nello spazio sociale, per mantenere una distanza fisica sufficiente a concentrarsi su un dialogo intimo.
In questi spazi giocano fondamentale importanza il vissuto sensoriale, la regolazione delle emozioni e la sintonizzazione cognitiva con l’altro: se uno di questi tre elementi viene meno, l’impressione di sentirsi rispettati può vacillare. Una visita medica si svolge mediamente nello spazio sociale e personale, ma l’esperienza può essere molto diversa: quante volte le persone raccontano di essere state a malapena guardate dalla persona di fronte a loro, al di là di una scrivania che viene vissuta come un muro? Con un familiare, soprattutto se è un partner, condividiamo liberamente lo spazio intimo, ma quante volte può capitarci di non sentirci rispettati da una sua frase o da una sua parola? 
Il concetto di rispetto, come forma di osservazione degli spazi prossemici e delle loro regole, è sicuramente il più comune e considerato nella nostra società: anche prima del dibattito semantico tra distanziamento fisico e distanziamento sociale emerso con le attuali norme sanitarie, lo spazio fisico e sensoriale si mescolava e si confondeva con il vissuto sociale.
Tuttavia, molto spesso questo concetto è a senso unico; è infatti facilmente concepibile dall’altro o dall’esterno verso il nostro interno (in senso afferente), ma difficilmente ci chiediamo davvero se siamo noi a rispettare gli altri o l’esterno (in senso efferente).

Un significato differente, più affine al secondo esempio, è quello che lega il rispetto al rispecchiamento, così come le due parole sono collegate semanticamente attraverso la parola latina respicio.
Ogni persona, oggetto o evento che entri in uno dei nostri quattro spazi può essere osservato come esterno, oppure come se fosse uno specchio che restituisce alla nostra percezione le fattezze (species), e le caratteristiche del nostro spazio.
Nel corpo, inteso come sistema biologico, questo fenomeno è molto studiato: è infatti alla base dei complessi meccanismi che orientano il nostro corpo e ne scolpiscono le forme in relazione allo spazio circostante (interocezione, propriocezione, esterocezione).
È molto più difficile accedere a questa forma di osservazione nelle relazioni emozionali, poiché ci mette di fronte al fatto che ogni percezione che abbiamo del mondo emerge, in realtà, dai nostri filtri e dalle nostre chiarezze, più che da una realtà oggettiva: ne deriva che ogni evento, o meglio la lettura che ne facciamo, è in qualche modo sotto la nostra responsabilità. Difficilmente, infatti, chi ci taglia la strada in macchina vuole farlo per danneggiarci, ma noi lo percepiamo ugualmente come se fosse un atto direttamente rivolto a noi, sovrapponendo all’evento una lettura che deriva da uno schema interno preesistente, e non corrispondente all’evento stesso. È un meccanismo studiato da molte discipline differenti, da quelle spirituali – che spesso parlano della legge dello specchio, o del teatro interiore – alla psicologia – che ce lo descrive come parte delle distorsioni cognitive (Beck).
Siamo quindi testimoni di un gioco di specchi, in cui la realtà non è oggettivamene quella che percepiamo, ma emerge fenomenologicamente da ciò che noi leggiamo di essa. Tutto questo non è affatto privo di rischi, come ci racconta il mito di Narciso, condannato a innamorarsi della sua stessa immagine riflessa e infine suicidatosi perché non poteva raggiungerla in nessun modo: non dobbiamo confondere ciò che possiamo vedere di noi attraverso la realtà, come se fosse uno specchio, con il fatto di esserne gli unici padroni, evitando di metterci in relazione. Quest’ultima posizione può solo portare a un vissuto illusorio, e in definitiva distruttivo.

C’è uno spazio in cui possiamo evitare questi rischi, e sperimentare rispetto e rispecchiamento con il giusto contenimento: il cerchio. Esso è una forma che l’essere umano frequenta e delinea da molto tempo, e di cui si è servito frequentemente nella propria storia sociale e comunitaria. Nel cerchio, infatti, a seconda della sua estensione e del numero di persone che lo compongono, è poco probabile che il nostro spazio personale venga invaso, ma piuttosto sperimentiamo l’accoglienza. Idealmente, pur aprendosi alla possibilità di essere osservati da altri, i nostri spazi sono rispettati e possiamo, in altre parole, essere vulnerabili senza sentirci esposti al pericolo.
C’è una grande varietà di attività che sono in tutto il mondo associate al cerchio, ma tutte coinvolgono almeno la danza/movimento, il canto/musica, e la narrazione. Mentre le prime due possono essere molto esplicite (molte forme di celebrazione sociale, così come di giochi infantili e di attività terapeutiche, si ricollegano alla danza e al canto in cerchio), la terza può essere sottesa e non dichiarata, ma è sempre presente. In un gioco in cerchio (Giro giro tondo, casca il mondo…), i bambini raccontano di sé attraverso il corpo, le movenze, gli sguardi e le voci molto più di quanto farebbero rispondendo a una domanda, senza usare altre parole che quelle della canzone che cantano tutti insieme.
Questa attività, che è il retaggio di un uso ben più antico e profondo, è connaturata a tutte le culture in diversi livelli, che hanno costruito in cerchio i loro luoghi più sacri, cercando per così dire di immortalare la figura che istintivamente crea un gruppo umano prendendosi per le mani, ma che si disperde con essi.

Ritorna quindi nel detto eschimese che apre questo articolo, il senso più profondo del cerchio, come luogo di aggregazione e sostegno, e di rispetto: nell’incapacità di parlarci alle spalle, la possibilità di guardare ai difetti dell’altro con la stessa compassione con cui guarderemmo i nostri; nel poterci guardare negli occhi, la possibilità di vedere la bellezza che sorge anche da quei difetti.