La Medicina Tradizionale tra olismo e olografia

di Luca Cascone

In molti contesti professionali che riguardano la salute e il benessere, dai più formali ai meno definibili, si è ormai diffuso in modo capillare il termine olistico, assumendo i più disparati significati e giustificando le più disparate pratiche. E, diciamolo pure senza remore, scadendo di significato e perdendo il suo originario potere. Per questo alcuni, per reazione, cominciano ad evitare il termine, distaccandosi da logiche superficiali che – assai spesso – danneggiano l’aspirazione che è stata racchiusa in questa difficile e maltrattata parola.

Il fatto di trovare un altro termine senza fermarci e interrogarci su questo fenomeno potrebbe metterci al riparo dallo scadere in una definizione potenzialmente pericolosa, certo, ma non va nel profondo della questione.
Partiamo dalla parola: “olistico”, aggettivazione di “olismo”, derivato da ὅλος (hòlos, “globale, totale”), compare per la prima volta come parola negli anni 20 del secolo scorso (J. Smuts, “Olismo ed Evoluzione”), sebbene le sue radici concettuali siano riconducibili a tempi ben più antichi in Occidente, e sicuramente in Oriente dove gran parte dei sistemi filosofici si basa sull’assunto (olistico, appunto) che un sistema non sia riducibile alla somma delle parti che lo compongono, ma debba essere visto nell’interezza della sua complessità.
Questo è l’assunto di base di ogni visione olistica, che per sua storia si contrappone, in qualche modo, ad una visione meccanicistica e riduzionistica di un qualsiasi sistema (in genere biologico): in parole povere, chiunque applichi questa idea al sistema-uomo ritiene che non basti spiegare “fenomeno uomo” in termini di aggregati di cellule, tessuti, fluidi, muscoli, articolazioni, organi, e meccanismi, pur sempre più raffinati fino ad arrivare alle strutture mentali, psichiche e – perché no – oltre. Ci deve essere “qualcosa in più” che dia il senso della complessità e delle relazioni tra le strutture, di una “teoria del tutto” che non riduca l’uomo a un omino di Lego, per quanto raffinati siano la progettazione, la realizzazione e l’assemblaggio delle parti.

Fin qui, non ci sarebbe niente da dire: è una prospettiva affascinante, dal mio punto di vista del tutto condivisibile in termini di pensiero intuitivo (per dirla con Jung), e che riporta immediatamente un sapore rinascimentale alla vita odierna.

L’ostacolo è, inevitabilmente, la realtà delle cose.
Posta l’innegabile natura “olistica” di un qualsiasi sistema, che alla somma della parti aggiunge il “più” del processo di metterle in relazione tra loro e con l’ambiente (il “tutto”) secondo una sua propria forma di “autonomia” e “coscienza” (cfr. olismo ontologico, teoria dei sistemi), non è possibile dall’esterno avere completa conoscenza di ogni parte e ogni relazione al suo interno: qualsiasi forma di conoscenza olistica di un sistema è quindi ascrivibile solo ad un sovra-sistema che contenga il sistema stesso, per cui si potrebbe azzardare il nome di coscienza collettiva.
Traslando il tutto nel contesto della salute, ogni persona-operatore che si approcci a una persona-cliente/paziente/utente (la scelta dei termini è di tipo contestuale e legale), inevitabilmente non sarà in grado di cogliere quel “tutto”, perché il suo sguardo sarà per forza di cose limitato: su tutti i piani, possiamo solo approcciarci a un’altra persona (ovvero ad un altro sistema) come singoli punti di osservazione, limitati e orientati da parametri fisici, emozionali, psichici. Il mondo “olistico” troppo spesso ha tradito la sua vocazione usandola come travestimento per potersi occupare di tutte le sfere dell’umano a piacimento dei singoli operatori, molto e troppo spesso senza nemmeno avere idea di quali queste siano, e di come (apparentemente) funzionino. Facendo ciò, non ha fatto altro che avvalorare l’idea che l’intero approccio non sia nient’altro che pseudoscienza e tuttologia da ciarlatani.

Per questo ultimamente, sono portato a pensare che sarebbe più saggio spostarsi semanticamente sulla definizione di olografia.
Un ologramma è per definizione una stratificazione di diverse immagini bidimensionali di un oggetto in una tridimensionale, ottenuta tramite l’impiego di un laser, che impressiona l’immagine tridimensionale su una lastra bidimensionale. Visivamente, un ologramma ha la particolarità di contenere, in ogni propria parte, l’informazione di tutta l’immagine: tagliandolo in due parti, infatti, entrambe mostreranno l’intera immagine immagazzinata nella lastra.

Questo è un concetto molto interessante se si pensa alle professioni che si occupano della relazione d’aiuto, in tutte le sue forme: ognuna ha un suo sistema di riferimento, e si basa su logiche e mappature proprie del fenomeno-uomo, che hanno però dei limiti, anche consistenti. Ogni professione o specializzazione, infatti, vede una “fetta” dell’ologramma e, se ha una caratteristica olistica, la utilizza per leggere l’intero ologramma a partire dalla propria visione.
A pensarci bene, questo approccio è l’esatto contrario, ontologicamente ed epistemologicamente parlando, di quello utilizzato dalla medicina moderna occidentale nel suo sistema di specializzazione, dove uno specialista legge il sistema umano nei limiti della propria competenza, demandando ad altri la lettura di altre aree o funzioni: questo porta a una continua frammentazione delle cure, che non tiene conto della necessità di ricostruire l’ologramma.
Ma l’olismo come normalmente lo intendiamo non la supera, anzi le si contrappone soltanto con forza uguale e contraria.

Il problema di fondo è che non si può ricostruire l’ologramma presumendolo a partire da un solo punto di vista, ovvero ciò che accade ormai molto frequentemente nel campo olistico: questa non è altro che l’altra faccia della specializzazione.
Di una cosa sono molto sicuro: non è questa la strada per recuperare l’integrità nell’esperienza della cura. Di contro, non ho una ricetta per risolvere il problema, ma una prospettiva: affidarsi a una logica transpersonale e trans-posizionale.

Un primo livello di questa prospettiva è la collaborazione. Un singolo professionista “vede” l’ologramma-persona a partire da un punto di vista, che ne determina i percorsi di analisi e le strategie che proporrà per risolvere un problema o aumentare il benessere e l’integrità della persona. Ma per quante competenze possa accumulare, ci sarà sempre una parte dell’ologramma che potrà solo “intuire” tridimensionalmente dal proprio punto di vista, e che invece un altro professionista vedrà in modo più nitido, a partire dal proprio. La vera collaborazione tra i due (e non il continuo rimbalzare da uno studio all’altro) è costituita dal mantenere lo sguardo puntato sulla tridimensionalità, pur muovendosi ognuno nella propria fetta di ologramma. Non si tratta di confrontare le rispettive visioni, ma di guardare allo stesso obiettivo pur da angolazioni diverse.

C’è un secondo livello, più complesso: è quello centrato sull’esperienza della persona che richiede aiuto (etimologicamente, il cliente). Come abbiamo detto, è solo dall’interno del sistema che si possono esperire tutte le caratteristiche e le necessità di quel sistema. Ne consegue che passare dalla semplice partecipazione della persona al proprio processo di cura e alla propria storia di malattia (come si chiama in Medicina Narrativa) al suo effettivo riprendere il ruolo di protagonista è fondamentale per orientare il processo stesso, attraverso il continuo monitoraggio dall’interno, e non – come spesso succede – per aggiungere un tassello alla mole di specializzazioni a cui una persona si può rivolgere, magari nello stesso specialista.

Infine, c’è un terzo livello, che custodisce il senso profondo dell’ologramma: la relazione, base e sostegno del triangolo che si instaura tra paziente e terapeuta, vede come suo vertice il , la versione più pura dell’ologramma. A questo livello si accede solo se da parte del professionista la specializzazione lascia il posto alla visione più ampia del Servizio, e se l’occhio clinico, che vede caratteristiche peculiari di fenomeni conosciuti, lascia spazio alla visione simbolica, che si astrae dalle singole manifestazioni della realtà, riconducendo e includendo la persona e il terapeuta in un ambito più grande, quello della Creazione stessa che si ripercuote e si rinarra ogni volta che entriamo a contatto con la realtà.
Allo stesso tempo, per accedere a questo livello è necessario che la persona prenda coscienza della propria responsabilità totale nel processo, senza delegarla ad altri. In definitiva, infatti, per le Medicine Tradizionali non esiste il “guaritore” in senso stretto, ma esiste la persona che ti può accompagnare verso la guarigione (etimologicamente, il terapeuta).

Ogni parte di noi è inclusa in un sistema più grande, ma è allo stesso tempo la rappresentazione esatta di un macro-cosmo che vi si riflette pienamente e totalmente dentro: in questo grande labirinto ci si perde molto di frequente.
Come potrebbe una singola mappa, per quanto dettagliata, racchiudere tutte le informazioni di un Universo?

La Medicina Tradizionale in tutto il mondo vive e respira di questa continua connessione, cercando di renderla il più possibile viva e presente. Non è un tentativo di scappare dalla realtà, ma al contrario di includerla nel grande movimento della danza cosmica, senza ridurla a un mero meccanismo, e nemmeno pensare che le sue funzioni siano solo espressione di rapporti coordinati all’interno di un unico sistema. La realtà è un grande calderone in cui ogni più piccola parte contiene l’informazione di tutto il sistema, dell’interna Coscienza Universale che possiamo chiamare Dio.
Eppure, la gran parte di questo calderone è buia e oscura: è a tutti gli effetti un Mistero.

È solo recuperandone pienamente questa caratteristica che possiamo uscire dalla trappola della convinzione che vedere la complessità significhi vedere tutto in modo generale, contrapponendolo al vedere solo una cosa in modo molto approfondito.
La visione della complessità dell’ologramma può essere rispettata solo accettandone il Mistero, e non cercando di sovrapporre al territorio una o più mappe, per quanto complesse, stratificate o dettagliate.
Altrimenti, si sta solo declinando l’errore condiviso della nostra società, la convinzione di poter vedere, conoscere e sapere tutto, in modi apparentemente contrapposti, allontanandosi dalla possibilità di accogliere la complessità e mettersi al suo Servizio in modo incondizionato, accettando di non conoscere tutti i risultati che le nostre azioni produrranno, ma avendo piena Fede che saranno guidati e prodotti da un’intelligenza infinitamente più saggia, complessa e lungimirante della nostra.

Andrew Taylor Still, fondatore dell’Osteopatia, che molti credono essere un ciarlatano meccanicista, aveva entrambi gli occhi molto ben aperti su questo Mistero, e gli sono attribuite parole che riassumono perfettamente la mia riflessione:

“Io amo i miei pazienti, poiché vedo Dio nei loro volti e nelle loro fattezze”.

Tutto ciò che si allontana da questo grado di complessità, è solo un tentativo di mettere al sicuro il proprio ristretto campo visivo, senza affidarsi all’infinita conoscenza della Natura universale.

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