La Medicina del Silenzio

di Luca Cascone

” Ti chiederanno: ‘Cos’è il silenzio?’. Tu rispondi: ‘È la pietra di fondazione del Tempio della Saggezza’. ”
Pitagora

Vi siete mai accorti di quanto il nostro tempo tema il silenzio?
Viviamo in un contesto storico, sociale e culturale mai visto prima nella storia dell’Uomo: abbiamo sempre a disposizione una fonte di copertura sonora per le nostre vite, che mima e incarna sempre più efficientemente il chiacchiericcio continuo della mente.
Girando per strada, vi sarete sicuramente accorti della massiccia e sempre più frequente presenza di cuffie più o meno voluminose che trasmettono musica in continuazione; entrando nei negozi, è d’uso comune ritrovarsi in un ambiente in cui aleggia (più o meno intensamente) musica di varia natura, di solito non scelta ad hoc; negli uffici, in molti accompagnano il proprio lavoro con la radio, o più recentemente con le playlist musicali trovate online; in macchina, sui mezzi, nei luoghi pubblici in certe occasioni (come in questo periodo natalizio) ci ritroviamo immersi in un paesaggio sonoro continuamente saturato.

Non è solo questione di musica, in effetti: la stessa saturazione sonora è data dal rumore di fondo di moltissimi contesti più o meno urbanizzati: nelle città o nei centri di media grandezza, è rarissimo trovarsi in una condizione di silenzio, o per così dire il silenzio è determinato dalla minor soglia di rumore possibile, che è comunque molto alta rispetto alla normalità a cui siamo stati abituati nella storia.
Anche se l’Uomo incrementa il suo livello di rumore a livello naturale, e la Natura stessa ha i suoi picchi di rumorosità (si pensi a certi suoni di animali, o anche all’immane potenza sonora di certi eventi naturali, come il fulmine), l’attuale continuità del rumore causato dall’Uomo e dalla società industrializzata sta diventando un problema importante, disturbando il comportamento di molte specie animali – un caso molto famoso è quello dei grandi cetacei, spesso disorientati dall’inquinamento acustico ed elettromagnetico – ma anche la salute stessa degli esseri umani: si ritiene che lo stress acustico sia una concausa molto frequente di diversi disturbi, dalla stanchezza cronica, alla difficoltà di concentrazione, a turbe neurovegetative più serie – come i disturbi del sonno -, fino a patologie anche molto gravi, come certe presentazioni del diabete o malattie cardiovascolari anche letali.

Il rumore della nostra mente mai sazia di informazioni e di stimoli, che fino a pochi decenni fa era solo un flusso di pensieri non sempre materializzato, è diventato a tutti gli effetti completamente fisico, e avvolge e permea ogni momento della nostra vita: dalla musica di cui sopra, alla televisione “accesa per farci compagnia“, ai rumori del traffico, a quelli dei trasporti.
Un’esperienza molto comune durante il lockdown dell’inizio del 2020 è stata proprio quella di riscoprire il silenzio (o almeno qualcosa di molto vicino ad esso): per darvi una stima, considerate che secondo alcuni studi il rumore di fondo nelle città industrializzate si ridusse anche del 50%, incidendo positivamente anche su diversi disturbi clinici legati all’inquinamento acustico.

Come esseri umani (e soprattutto animali) abbiamo un vitale bisogno di silenzio.
Non è per questo che abbiamo cominciato a pregare, o a meditare, o a ricavare spazi nelle comunità crescenti e sempre più complesse per prendere una pausa e ascoltare profondamente dentro e intorno a noi?
Il periodo natalizio ne è una prova tangibile (e spesso non in positivo): almeno nell’emisfero boreale, stagionalmente parlando, questo è un periodo di riposo e di introspezione per tutta la Natura. Gli animali si acquietano, molti vanno perfino in letargo; le piante rallentano il loro metabolismo; la Terra stessa, secondo le antiche tradizioni, dorme in attesa di risvegliarsi.
Il periodo natalizio nasce proprio per celebrare questo momento, nel clima successivo alla ricchezza autunnale e al progressivo addormentamento, celebrando con gioia la promessa del Solstizio d’Inverno: la nascita di un nuovo calore, e di nuova energia vitale, che però rimane ancora lontana, mentre il buio è al massimo della sua estensione.
È (o dovrebbe essere) un periodo di raccoglimento, di intimità e di silenziosa osservazione.
Cosa ci spinge a trasformare tutto questo in un caos rumoroso e cacofonico?

Forse temiamo il Silenzio.
Nel silenzio è difficile ammantarsi di un chiacchiericcio rassicurante, ed è molto complesso continuare a cercare stimoli esterni. È anche molto difficile ascoltare il proprio corpo, nel silenzio: è molto meglio muoversi sull’onda di uno stimolo esterno, soprattutto se acustico. Avete mai provato la sgradevole sensazione (per la mente, ovviamente) di danzare senza una musica ad accompagnarvi?
Il silenzio ci costringe ad avere a che fare con noi stessi, così come siamo, senza alcun intermediario.
Certo, ovviamente aveva ragione il Maestro Pitagora: senza questa premessa, nessuna Saggezza può essere davvero raggiunta. Ma, forse, non aveva considerato che il coraggio di stare è qualcosa che molti di noi fanno fatica ad alimentare, e che anche i più saggi a volte perdono.

Senza pretese di diventare grandi Saggi, proviamo a concedere a noi stessi alcuni momenti di silenzio al giorno: al risveglio, prima di dormire, in un momento di tranquillità o prima di parlare, prendiamo brevi attimi di pausa dal continuo e indiscriminato fare, e proviamo a goderne.
Si dice che a Natale si sia tutti più buoni: proviamo a essere più silenziosi, e scopriamo se questo ci conduce a uno stato di maggiore disponibilità, benessere e apertura.

La Medicina del Silenzio è antica quanto la prima Alba e la prima Neve: diamole lo spazio che si merita, e lei ci porterà Doni inaspettati.

Abitare i Confini

di Luca Cascone

In questa settimana, particolarmente intensa per me e per molti altri, ho considerato a lungo il concetto di confine: in molte consulenze e in diversi eventi della vita privata, ho incontrato l’esigenza di riflettere profondamente sulla sua importanza.
Ho già scritto, l’anno scorso, un articolo su questa materia, soffermandomi soprattutto sugli aspetti relazionali dei confini, e degli spazi prossemici in cui viviamo quotidianamente. Questa volta, avevo necessità di concentrarmi sugli aspetti dei confini che riguardano l’autodisciplina e il nostro stesso modo di percepirci.
Come faccio spesso, ho cercato un aforisma che mi ispirasse, e ho letto queste parole:

“I sani confini non sono muri. Sono cancelli e staccionate che ti permettono di godere della bellezza del tuo giardino“.
[Lydia Hall]

Mi ha colpito un’intuizione che aleggiava da alcuni giorni, complici alcune esperienze che mi hanno aperto uno spazio di riflessione: ci sentiamo spesso in balia degli eventi, senza una reale capacità di mutare il corso delle nostre vite, invasi e compressi dal resto del mondo con le sue richieste, aspettative e pretese, ma la verità è che il più delle volte rinunciamo a prenderci la responsabilità di decidere in piena consapevolezza quali sono i confini che nutrono e difendono la nostra integrità e il nostro benessere.

Immaginiamo la nostra vita come un insieme di bolle una dentro l’altra: dalla più vicina, che contiene noi e le nostre relazioni più intime, alla più lontana, che contiene il mondo che appena ci sfiora, tutto ciò che ci attraversa lo fa perché si inserisce nel nostro sistema percettivo, con gradi e intensità diverse a seconda dell’intimità che concediamo.
Anche quando non li percepiamo, i confini definiscono la nostra disponibilità e i rapporti che viviamo: non tutti possono toccarci fisicamente allo stesso modo, per esempio accarezzandoci, e nemmeno baciarci; è un privilegio di pochi. Allo stesso modo, alcune persone possono parlarci confidenzialmente e in modo diretto, e con altri intratteniamo rapporti più formali. Alcune parole o espressioni ci toccano di più, mentre altre non sono per noi motivo di riflessione o di disagio. Alcuni fenomeni naturali ci fanno più paura (ovvero irrigidiscono i nostri confini), mentre altri sono fonte di piacere (li ammorbidiscono e ci rendono disponibili).

Il confine emerge di concerto tra ciò che noi siamo disposti a concedere, e l’obiettivo che l’interlocutore è intenzionato a raggiungere.
Spesso siamo portati a credere che essere disponibili significhi non stabilire confini, ma non ci potrebbe essere idea più fuorviante: è proprio senza stabilire confini che ci esponiamo a subire tutto ciò che ci accade come incontrollabile, traumatico e distruttivo.
Esattamente come un bambino necessita di confini e di disciplina, oltre che della soddisfazione degli altri bisogni primari, per crescere e diventare un adulto responsabile, allo stesso modo la nostra vita ha bisogno di confini, per essere vissuta davvero e in profondità.

Un esempio che faccio spesso: se il mio interlocutore estrae un coltello intenzionato a farmi del male, io ho tutto il diritto di difendermi. Il come sarà una questione di capacità e di scelte: i grandi Maestri hanno fermato la violenza con la loro sola presenza (vi invito a cercare gli episodi del Buddha con il criminale Angulimala che divenne Ahimsaka, o di Gesù con i soldati che attaccarono gli apostoli nell’orto del Getsemani), altri, meno carismatici, usano la loro forza per disarmare l’avversario senza danneggiarlo, e altri ancora, molto meno carismatici, impugnano a loro volta le armi e ingaggiano la lotta.
Qual è il mio confine?
Se sta nel non alimentare la violenza, sceglierò la seconda soluzione. Se sta nella difesa personale, potrò lottare e rischiare di danneggiare me o il mio opponente.

Un altro esempio: se mi mettono a disagio, non è necessario che io accetti certi tipi di contatto fisico. Non mi riferisco solo a contatti particolarmente abusivi, ma anche a certi confini sociali che non sono assolutamente scontati: personalmente, sono una persona che abbraccia molto facilmente, ma se ho uno sconosciuto di fronte, sto molto attento a chiedere il permesso (non solo verbalmente). Non è affatto scontato che l’altra persona sia disposta ad accettare un contatto così stretto, anche se per me è assolutamente naturale.
Qual è il confine che devo rispettare?
Non sarebbe saggio imporre il mio modo a chi non lo gradisce, poiché da gesto gentile diventerebbe una violenza. In una situazione del genere, posso portare la stessa qualità nelle mie parole?

Immaginate ora che il vostro spazio sia quello della citazione che mi ha ispirato: un meraviglioso giardino, da curare con grande attenzione. Se non aveste un confine, quanto passerebbe prima che animali affamati, persone di passaggio ed elementi naturali incontrollati devastino il giardino, rendendolo un ammasso confuso di terra sterile e incurata?
Al contrario, come potrebbe crescere rigoglioso se lo chiudeste completamente all’esterno, escludendo gli uccelli e il vento che portano semi, le api che fanno circolare i pollini, il calore del sole che dà vita ai semi, o la pioggia che dona forza alla linfa?
È quello che succede molto spesso alle nostre vite: a volte mettiamo confini troppo netti, che inaridiscono le nostre relazioni e i nostri rapporti, e rendono difficile lo scambio; a volte, al contrario, non mettiamo confini, e permettiamo a chiunque di entrare nel nostro spazio intimo e di depredarlo, lasciandoci spogli e sfibrati, e vaghiamo alla ricerca di altri spazi che trattiamo allo stesso modo.

Stabilire sani confini è necessario alla vita: significa curare il giardino con amore e dedizione, scegliendo a quale distanza e con quale forza tenere fuori le influenze negative, e permettendo a chi lo nutre di entrare nello spazio, attraverso i cancelli che noi stessi decidiamo di aprire e chiudere.
Questo vale in ogni ambito della nostra vita, da quello fisico, a quello relazionale, a quello professionale: solo costruendo i giusti spazi e curandoli con attenzione possiamo vivere davvero pienamente, nel massimo rispetto della nostra natura e di quella altrui.
Abitare i confini significa stare nello spazio del confine stesso, scegliendo di volta in volta quale sia la sua posizione migliore, chi o cosa può entrare, e chi o cosa no: è un esercizio continuo di consapevolezza e di dialogo tra noi e il mondo, nella mutua ricerca del migliore stato di Equilibrio e di Benessere.

Essere nel corpo, non del corpo

Di Luca Cascone

Ci sono molti modi per avere a che fare con il corpo umano, e molti di questi modi nel nostro mondo lo osservano come una sorta di alieno, o di macchina eccezionalmente complicata, da scoprire, smontare, oliare ed aggiustare.
Questo approccio, che è proprio della nostra società in modo quasi maniacale, arriva ad essere confuso con una buona conoscenza della macchina, o ancora di più con una sorta di riverenza verso di essa.
In realtà, non c’è niente di più lontano dalla verità.

In una realtà sociale e storica come quella in cui viviamo, dominata dal pensiero occidentale “traviato”, il corpo è il corrispettivo biologico dell’automobile o dell’ascensore: un mezzo con cui spostarsi. Certo, un mezzo da conoscere estesamente, a cui fare una manutenzione a volte quasi eccessiva nella sua meticolosità, ma niente di più, niente di più vicino a un’osservazione davvero partecipata, vicina, attenta, e in definitiva realmente umana.

Il corpo, oggi, è un oggetto a cui ci si riferisce di volta in volta secondo modelli e linguaggi di tipo estetico (bello e brutto), erotico (attraente o non attraente), medico-sanitario (sano o ammalato), performativo (sportivo o sedentario), eccetera. Raramente, però, usciamo dai linguaggi che usiamo per descrivere il corpo, o descriverne quelle parti che in quel momento sono funzionale all’incasellamento analitico che stiamo portando avanti, o che la società sta portando avanti su di noi.


Quando ci fermiamo ad osservare il corpo così com’è?

La massima che dà il titolo a questo articolo è presente in diverse tradizioni sapienziali, sotto la forma di un apparente distacco dalla corporeità per cercare la libertà della mente e dello spirito.
In realtà, se guardiamo in profondità questo concetto, ci accorgiamo che è proprio il contrario: attraverso il riconoscimento, da parte della coscienza, del non essere solo un corpo, ci è data la possibilità di osservarlo senza renderlo necessariamente uno strumento funzionale all’obiettivo del momento. Ci è data la possibilità di vivere il corpo in modo indipendente e autonomo da ciò che pensiamo su di esso o da ciò che vogliamo fare di esso, ma quasi nessuno approfitta di questa straordinaria abilità e possibilità.

Quando starnutiamo, ci fermiamo ad osservare il processo con cui il corpo cerca di eliminare gli agenti patogeni, meravigliandoci delle strategie millenarie che ha elaborato, o pensiamo subito di essere ammalati?
Quando camminiamo, ci fermiamo ad osservare la complessa e affascinante serie di coordinamenti necessari a realizzare ogni singolo passo, godendo della precisione di lavoro del nostro sistema nervoso e del nostro sistema muscoloscheletrico, o usiamo tutto questo solo per raggiungere la meta che abbiamo fissato in quel momento?
Quando ascoltiamo qualcuno che parla, sappiamo riservare una parte della nostra attenzione all’incredibile atto della comunicazione, e agli effetti e reazioni che il discorso del nostro interlocutore causa su di noi, o siamo interamente proiettati verso la risposta che già stiamo costruendo nella mente, per portarci avanti senza nemmeno aver finito?


Per la maggior parte del tempo, sfruttiamo il corpo senza mai osservarlo davvero.

Di solito, cominciamo a mettere l’attenzione su questa delicata e sovrumana capacità solo quando qualcosa non va: se ad esempio ci ammaliamo, anche in modo lieve, improvvisamente il corpo acquista una centralità quasi ossessiva, che spinge molti di noi a cercare l’esatta definizione della propria condizione o patologia, senza mai fermarsi ad osservare cosa sta succedendo.
Il corpo ha una capacità comunicativa incredibile, e nulla di ciò che fa è mai casuale, al contrario di ciò che vorrebbero credere alcuni: ogni azione mediata dal sistema nervoso e incarnata nei tessuti del corpo ha un significato e una finalità di tipo comunicativo, e in definitiva espressivo e relazionale.
Purtroppo, questi messaggi che il corpo invia non possono essere colti, se siamo troppo occupati a gestirlo con altri linguaggi e altri obiettivi: dobbiamo dare spazio alla sensorialità, se vogliamo accedere a questo livello di dialogo.

È una cosa che vedo praticamente ogni volta che qualcuno si rivolge a me: tutti parlano del proprio corpo, ma quasi nessuno lo vive.
Lavorando in un contesto terapeutico, mi trovo spessissimo a dialogare prima di tutto sul senso (e non sul significato!) che il dolore, la difficoltà o la patologia assumono per la persona, e di solito scopro che è un terreno che nessuno ha ancora battuto.
È come se, chiedendoci costantemente il perché delle cose, perdessimo lungo la strada il come, e il come stiamo mentre accadono.

Una lezione inestimabile delle Medicine Tradizionali e dei sistemi di cura che si muovono da esse è proprio quella di rimettere al centro l’esperienza della persona prima ancora del dare un nome alla malattia, o di trovare il modo di guarirla. Dare una storia agli eventi non è un esercizio intellettuale, ma una profonda necessità che l’umano sembra dimenticare.


Non si può guarire davvero se prima non ci si ferma ad osservare il processo di malattia, perché è in esso che possiamo trovare la soluzione ai nostri problemi.

Non esiste pillola magica o soluzione miracolosa ai problemi fuori dai problemi stessi, anche se cerchiamo in tutti i modi, ogni volta, di aggrapparci a questa possibilità. Come dice un celebre aforisma zen: la via per uscire (dai problemi) è dentro (“the way out is in”).
Fermiamoci ad osservare il nostro corpo, e lui risponderà con l’unico linguaggio che conosce: quello dei sensi, e della verità.
Anche se quella verità sarà scomoda per la nostra mente, il nostro corpo saprà sempre cosa è meglio per noi, perché per nostra fortuna è un veicolo, ma molto più intelligente di qualsiasi macchina che noi potremo mai sperare di immaginare e costruire.

Fidiamoci del corpo, e lui saprà sempre indicarci la via giusta.

La legge dell’analogia

Di Nicoletta Giancola

L’articolo di oggi ci porta a mettere in pratica letteralmente il significato del nome assegnato a questa rubrica: risvegliare l’esploratore.

Chi è l’esploratore? È quella parte che, quando eravamo bambini, ha iniziato a chiedersi il “perché” delle cose. È ognuno di noi.
Perché è necessario che si risvegli? Perché nell’uomo è insita la ricerca, la voglia di scoprire e di capire, ma quella fiamma spesso si affievolisce a tal punto che smettiamo di porci domande e di ricercare, sia attraverso la conoscenza intellettuale che esperienziale.

Tornare a vedere con gli occhi di un bambino” (cit.) è ricontattare quella purezza che permette di vedere le cose per come sono e accadono, e meravigliarsi di come possano farlo.
Mentre ero in viaggio verso una formazione, ieri mi è successo di incontrare una serie di rallentamenti in autostrada, che mi hanno permesso di notare con più precisione dove mi trovassi e cosa stessi facendo, allontanandomi dal semplice pensiero di percorrere una strada per arrivare a destinazione. Questo stato di maggiore quiete, a sua volta, ha fatto sì che osservassi i lavoratori in strada, ed in quel momento è sorta una domanda. Perché erano lì? Cosa stavano facendo? In realtà, era piuttosto ovvio, ma mentre mi incanalavo in un ulteriore restringimento di corsia, corrispondente ad un ulteriore rallentamento anche interno, è arrivata un’altra domanda: che analogia hanno gli operatori al lavoro in strada con il nostro corpo? 

Lo so, può sembrare un po’ strana come domanda, ma tutti gli eventi e tutto il mondo possono essere l’analogia di qualcos’altro, e a me piace provare ad intuire cosa sia.
La legge dell’analogia, una delle leggi universali che regolano il cosmo, si trova riportata sulle Tavole Smeraldine, il compendio di sapienza attribuito ad Ermete Trismegisto, e in breve viene descritta con le parole:

Come sopra – così sotto, come sotto – così sopra. Come dentro – così fuori, come fuori – così dentro. Come nel grande – così nel piccolo”.

In pratica, ciò che avviene dentro di noi influenza la realtà fuori di noi, e viceversa. Per capire il fuori dobbiamo vedere dentro, per capire il dentro dobbiamo vedere fuori.

E così, pensando che le grosse strade di collegamento vengono chiamate per analogia anche arterie, mi sono chiesta cosa potessero rappresentare i rallentamenti e i lavoratori.
Mi sono accorta che l’esempio più simile che sorgeva nella mia consapevolezza era quello del corpo, che rallenta il flusso sanguigno in una zona da riparare in modo da poter permeare il distretto e rilasciare gli elementi adatti alla riparazione tissutale, mentre altri elementi corpuscolari (per analogia, le automobili) continuano a scorrere all’interno dei fluidi nei vasi sanguigni (la strada), e laddove ci sia necessità di un intervento specializzato si fermano e si inseriscono nel processo di riparazione, come un mezzo di servizio. 
Questo è solo un semplice esempio di analogia. Di tanti altri avete sentito parlare molto spesso: è il caso dell’analogia tra forma di un cibo e forma dell’organo corrispondente, e anche di quella tra la forma dell’albero – che lavora con la produzione/scambio di ossigeno e anidride carbonica – e la forma dei polmoni – che producono/scambiano esattamente al contrario.

Quello che vi suggeriamo è di provare a farvi domande e di ritornare a giocare al gioco dei perché come fanno i bambini.
I loro perché, spesso surrealisti ma sempre dotati di un proprio senso, ci colgono il più delle volte impreparati. Quante volte ci capita di rispondere senza nemmeno pensare alla domanda? O rispondere con una frase fatta? O ignorarli nel modo più assoluto (magari distogliendoli dalla domanda)? 
Imparare a domandarci il perché delle cose ci aiuta a superare gli stereotipi e imparare a vedere il complesso dietro la banalità, ci porta a riflettere su di noi, sulla nostra vita e sulla natura dell’universo e per quanto possa apparire ai più una perdita di tempo, in realtà aiuta a riconnettersi alla parte più profonda di noi.

L’occhio di chi guarda

di Nicoletta Giancola

Quanto è difficile rendersi conto delle diverse possibilità di visione, e a cosa sono dovute?

Rendersi conto che la realtà che osserviamo è soggettiva e non oggettiva è tra le cose più difficili da tenere a mente ogni volta che ci relazioniamo con qualcuno. Quando ci confrontiamo non teniamo in considerazione che noi e il nostro interlocutore parliamo in base al nostro punto di vista, ma questo è fondamentale se vogliamo provare a comprenderci.

La realtà che osserviamo è soggettiva proprio perché sono i nostri occhi il punto di osservazione da cui parte la visione: paradossalmente, ognuno di noi vede, percepisce e registra lo stesso colore con una sfumatura unica, dovuta all’unicità strutturale e funzionale del suo proprio occhio.

Per visione si intende la percezione degli stimoli luminosi da parte di un organo sensoriale (appunto, l’occhio), e la loro trasmissione e successiva elaborazione a livello del cervello, con il risultato della “proiezione” interna di un’immagine, speculare all’oggetto. È la luce a stimolare le nostre cellule, che inviano di seguito impulsi elettrici che verranno tradotti ed elaborati per suggerirci ciò che stiamo vedendo.

Come può dunque essere oggettivo ciò che osservo se tutto dipende dall’elaborazione di ciascuno? E soprattutto se ciò che arriva all’occhio altro non sono che frequenze luminose?

Comprendete quanto pensare di far capire all’altro ciò che noi percepiamo senza considerare queste premesse possa essere un’impresa inutile e dispendiosa. Partiamo piuttosto dal ricordarci che il nostro punto di osservazione e di elaborazione è unico, esattamente come quello dell’altro, e se non si è disposti a provare ad accogliere ed ascoltare veramente allora la maggior parte dei confronti fatti sarà solo o un darsi ragione a vicenda o far prevalere uno dei due punti.

Se consideriamo inoltre che nel processo di elaborazione da parte del cervello sono comprese anche le esperienze vissute, sia in senso affettivo che mnemonico, ancora di più risulta che quando ci si comprende è un vero miracolo.

Un esempio che può tornarci utile per capire tutto questo è immaginare due persone in dialogo mentre percorrono insieme un sentiero in montagna. 
Anche trovandosi a fare lo stesso percorso, come detto sopra, ognuno di loro farà un’esperienza altamente personale: la visione del paesaggio, per quanto simile, sarà molto diversa e più o meno ricca di particolari.
Se poi ad un certo punto uno dei due decidesse di fermarsi, e l’altro decidesse di proseguire, sarà ovvio che risalendo la montagna la possibilità di ammirare e comprendere rispetto al proprio punto di osservazione sarà ancora più completa e ricca. Immaginiamo che il primo, fermo in una foresta, aspetti il secondo che intanto gode del cielo sgombro e dell’aria fresca del monte.
Ridiscesi, non gioverà a nessuno dei due discutere delle reciproche diversità, se sia meglio il bosco o l’alta montagna, ma probabilmente al primo farà piacere sapere che più in alto, seguendo un certo sentiero, il clima e il paesaggio offrono una diversa vista, e al secondo piacerà sentire il primo raccontare dei diversi particolari che non aveva afferrato. Se entrambi non tenessero in considerazione i diversi punti di osservazione, sarebbe molto difficile rispettare le reciproche differenze. 

Così, per cercare di avere una visione sempre più ampia, ci dobbiamo ricordare che occorre salire in verticale, senza dimenticarsi di ciò che si è osservato nei diversi livelli della risalita: solo così possiamo permetterci di comprendere sempre meglio sia l’altro sia il nostro stesso punto di vista.

Radicarsi per essere Liberi

“Metti radici nella terra, così potrai ergerti alto nel cielo: metti radici nel mondo visibile così da raggiungere l’invisibile”
Osho

Il termine “radicamento” è molto spesso usato in italiano per tradurre il più ampio termine anglosassone “grounding”, rendendone il significato legato alla capacità di aderire e di aggrapparsi al suolo, sia fisicamente che simbolicamente. Questa capacità, che negli alberi è appunto collegata alle radici, negli animali e di conseguenza nell’essere umano si esprime in una diversa relazione con il piano d’appoggio: mentre l’albero penetra nel suolo e vi si ancora, il nostro corpo aderisce e al tempo stesso reagisce ad esso, principalmente attraverso i piedi. Per questo, alcuni traducono il termine “grounding” con “atterramento”; sebbene sia forse meno elegante, può darci una diversa visione e un diverso risvolto pratico.

Attraverso il grounding, mettendoci in comunicazione con il nostro centro di gravità (che è situato tra il pube e l’ombelico, all’interno dell’addome), attiviamo una percezione di stabilità ed equilibrio per un’infinita possibilità dinamica, sentendoci sostenuti e non vincolati al terreno. Ogni volta che scegliamo di eseguire un movimento, che sia veloce ed automatico o studiato e cosciente, dobbiamo essere radicati: un movimento efficace parte dal centro, dal nostro interno per raggiungere la periferia e l’esterno.

I modi per sperimentare questa capacità sono moltissimi. In definitiva, tutti quelli che ci permettono di sentire il nostro centro.

Tra questi, è molto utile esercitarsi a sentire il peso.
Posizionandoci in piedi, giocando con l’appoggio dei nostri piedi, possiamo percepire la forza di gravità che ci attira al suolo attraversando tutto il corpo, ogni parte del quale reagisce in un gioco di equilibrio dinamico. Anche da seduti, o da sdraiati, possiamo porre l’attenzione su come e quanto riusciamo a lasciare il nostro peso verso terra, e percepire il sostegno uguale e contrario che essa ci restituisce. Anche se non è necessario muoversi per allenarsi in questa pratica, sperimentare diverse sensazioni di tensione e di peso aiuta moltissimo a percepire il gioco gravitario.

Anche la consapevolezza del respiro è un utile strumento di radicamento.
Connettendoci al respiro, lasciamo che l’inspirazione e l’espirazione raggiungano uno stato di equilibrio senza lasciare pause: arrivati a un buon equilibrio, possiamo scendere in profondità con l’attenzione, seguendo la via verticale che ci percorre dalla testa ai piedi, l’asse cielo-terra che ricorda il tronco dell’albero, fino a toccare nell’addome un punto di equilibrio tra la parte superiore e quella inferiore del corpo. Da qui, possiamo esplorare la dinamica del respiro che si sviluppa nella dimensione orizzontale, contattando la sensazione di espansione e di retrazione antero-posteriore e laterale, all’intersezione tra il piano frontale e quello trasversale.

In terza e ultima battuta, possiamo rendere ancora più viva la sensazione del radicamento e del centro quando il respiro si fa vibrazione e suono: la vocalizzazione, naturale conseguenza della respirazione, è da sempre strumento di esplorazione e di centratura dentro di sé. Molto utile a questo scopo è la vocalizzazione della lettera “M”, detta “humming”, che garantisce la massima percezione interna del suono: le labbra sono infatti chiuse, e l’aria che esce dal naso disperde la minima quantità di vibrazione, massaggiando dall’interno tutto il nostro corpo, dalle cavità fino alle ossa, e distendendo anche le tensioni più profonde.

Pochi minuti al giorno di queste pratiche, eseguite in successione o singolarmente, secondo il bisogno, garantiscono non solo un grande senso di presenza corporea, ma anche un profondo senso di benessere e di vitalità. Il corpo ne risulterà rinvigorito e alleggerito al tempo stesso, e con lui si appianeranno gli stati emotivi più turbolenti. Anche la mente, concentrandosi sul processo dell’esercizio e sui suoi effetti, smetterà di inseguire febbrilmente i pensieri, accorgendosi di poter fare una pausa ristoratrice.

Radicati al nostro centro, fisico, emotivo e mentale, possiamo procedere liberamente nel mondo, godendoci il cammino, sapendo di essere sempre a casa dentro noi stessi.

L’importanza del contatto affettivo

Il contatto, ignorato e trascurato in questi giorni più che mai, è un atto
fondamentale per la soddisfazione dei bisogni, specialmente nei
mammiferi sociali come l’uomo. In ogni momento, di ogni giorno, il
nostro vissuto è scandito da quanto e come tocchiamo, e quanto e
come siamo toccati.

Lo sviluppo embriologico dell’essere umano ci insegna come lo stesso
tessuto primigenio, l’ectoderma, genera nell’evoluzione sia il tessuto
nervoso, sia la pelle e i suoi annessi, e come essi rimangano
intimamente legati nei processi di riconoscimento e mappatura statica e
dinamica di ciò che sta all’interno (intero/endocezione) e di ciò che sta
all’esterno (propriocezione e apticità) di noi.

La consapevolezza del tocco restituisce senso al rapporto con il mondo,
sia che si tratti dei propri simili, sia di oggetti.
E’ noto come il bambino che non venga stimolato da appropriate
modalità e qualità tattili (ricordiamo, come i bambini insegnano, le grandi qualità tattili della lingua e della bocca!) possa sviluppare ritardi psicomotori decisivi per la futura qualità della vita.
Ma questa funzione, fisiologica come affettivo-emozionale e mentale,
non termina con l’età neonatale o con l’infanzia: rimane fondamentale in
tutto il corso della vita
.

La capacità di riconoscersi come singoli, e di riconoscersi in relazione ai
propri simili e, in definitiva, al mondo, passa costantemente attraverso il
con-tatto.
Ci siamo stupiti, oggi, di come cercando “contatto” su un noto sito di
immagini, ci siamo ritrovati di fronte a una lunga serie di indici puntati,
tablet, telefoni, computer
.
E’ indubbio che il tatto sia affine all’udito, suo parente stretto, e in
qualche modo alla vista, ma tentare di renderlo sostituibile è
probabilmente uno degli errori più importanti che stiamo facendo.

Quanto manca il contatto in questo periodo storico?
Quanto lo abbiamo sostituito con altre forme di comunicazione?
Quanto contatto abbiamo da recuperare?

“Se ognuno di noi venisse abbracciato e accarezzato anche solo una volta al giorno da quando viene al mondo fino alla fine della sua vita, credeteci: non ci sarebbero più guerre!”

[J. Plungger, T. Poppe]


Riferimenti

Cascio et al. – Social touch and human development
Bales et al. – Social touch during development: Long-term effects on
brain and behavior.
Boudreault, Ntetu – Affective touch and self esteem in the elderly
Saal, Wang, Bensmaia – Importance of spike timing in touch: an analogy
with hearing?
Blechschmidt E. – Come inizia la vita umana dall’uovo all’embrione
Jean Piaget – La Psicologia del Bambino
Maria Montessori – La Mente del Bambino