Il potere di lasciar andare

Questa settimana, parlando del Colon (o intestino crasso), la prima dicotomia da tenere in considerazione è sicuramente quella tra i trattenere e il lasciar andare. Questo ci parla della capacità fisiologica dell’ultimo tratto di intestino di trattenere la materia più vitale (l’acqua) e di eliminare ciò che non serve più.
Vi abbiamo parlato della fisiologia, ma oggi passiamo ai significati psicosomatici ed energetici di questo tratto del sistema digerente, che ci dà appunto la possibilità di vedere chiaramente ciò che ci dà forza e ciò che diventa tossico, e quindi deve essere eliminato.

In Medicina Cinese, ad esempio, il Colon assume la funzione di un netturbino, ovvero di colui che si incarica di ripulire ed eliminare il campo corporeo dalle scorie e dai rifiuti. È anche però l’ultima sentinella che può decidere se tenere qualcosa, e ha il compito di riconoscerlo.
Associato in questo sistema all’elemento del Metallo, è energeticamente “gemello” del Polmone, con cui condivide i processi di discernimento (dei gas nel caso del secondo, dei liquidi nel caso del primo), e il suo ruolo è separare il chiaro dal torbido.
Ritorna qui l’importanza del cervello enterico, che, proprio come quello neurologico, è capace di esercitare discernimento e discriminazione, scelta e direzionalità. Siamo solo meno abituati a concepirlo come un’interfaccia altrettanto importante per conoscere e significare il mondo.

L’addome, per eccellenza, è il luogo dell’inconscio, ovvero l’area del nostro corpo dove la coscienza non vuole o fatica ad arrivare, ed è particolarmente collegato al vissuto emotivo. In ottica psicosomatica, il Colon è infatti il luogo di somatizzazione dell’ansia e del trattenimento, ovvero della capacità/incapacità di lasciar andare e lasciarsi andare.
È attraverso le manifestazioni e il funzionamento di questo viscere che il corpo elabora la libertà psicoemotiva, oppure resta nelle dinamiche di attaccamento che condizionano la nostra esperienza. La reazione può essere al polo dell’esasperazione del controllo stesso, portandosi verso la stipsi e la dolorabilità cronica, oppure verso il rilascio incontrollato, come nel caso della diarrea e di alcune forme di sindrome del colon irritabile: per incapacità di gestire la discriminazione tra ciò che deve rimanere e ciò che deve essere espulso, il corpo reagisce eliminando tutto ciò che sta transitando dal colon. Nonostante possa sembrare molto strano, provate a pensare al classico “mal di pancia” prima di un’occasione importante (un esame, una performance, una riunione, …): possiamo andare incontro a dolori e crampi fino allo “spegnimento” dell’intestino (stipsi) oppure alla sua ipersollecitazione (diarrea).
Le manifestazioni fisiche che possono accompagnarsi alla paura e all’insicurezza in queste situazioni ci parlano della nostra (in)capacità di restare lucidi e fluidi all’interno di una situazione di stress, abbandonando il senso del controllo, per riconoscere le nostre emozioni limitanti (il torbido) e tentare di superarle, o prendercene cura il più serenamente possibile.

Recuperando l’acqua (il chiaro), il Colon ci insegna a riconoscere le qualità vitali che possiamo mantenere anche nelle situazioni di maggiore stress, che ci permettono di superare gli ostacoli in modo creativo e sano, attraverso l’implementazione di strategie fisiche, emotive e mentali non violente verso noi stessi o gli altri, ma comunque volte in modo deciso alla risoluzione e al benessere del nostro sistema e di chi ci sta intorno.
Viviamo in un contesto culturale in cui la capacità di lasciar(si) andare non è vista di buon occhio: sottrarsi alle dinamiche di massima resa a tutti i costi è una vera e propria sfida a cui siamo messi di fronte, per poter riconoscere i nostri bisogni fondamentali ed eliminare ciò che non ci nutre (o ciò che non ci nutre più).

Potremo così avere accesso ad una grande forma di libertà, quella di decidere cosa è meglio per noi, e lasciar scorrere via ciò che non è più necessario.
La lezione del Colon è chiara, resta a noi impararla!

Alla prossima settimana,

Luca e Nicoletta

Il Cervello Enterico

Questa settimana abbiamo parlato delle caratteristiche anatomofisiologiche dell’intestino, e vi abbiamo accennato che la sua relazione con il cervello è particolarmente complessa e stratificata, tanto da essere in molti modi una relazione alla pari. Nel mondo scientifico questo è riconosciuto da alcuni anni, in cui lentamente il concetto si è fatto strada fino a diventare una vera e propria branca delle neuroscienze, ma questa connessione è conosciuta per via intuitiva e simbolica da migliaia di anni in Medicina Tradizionale.
L’intestino digerisce, oltre al cibo, anche le emozioni e i pensieri che si muovono nel nostro corpo, e quando non riesce a digerirli crea tossine, che a loro volta danneggiano, in modo più o meno importante, gli organi e l’intestino stesso.

È intuitivo riconoscere come i pensieri ricorrenti, ma anche l’ansia, la depressione, lo stress, la paura, l’agitazione e il nervosismo possano generare disturbi intestinali di vario genere, come dissenteria, crampi, mal di pancia, stipsi. È vero anche il contrario: disturbi dell’apparato intestinale possono creare tensione, ansia, stress, fino anche ad attacchi di panico.
In questo senso, la fisiologia ormonale ci spiega il perché: la serotonina, che è un neurotrasmettitore, comunemente chiamato “ormone del buonumore”, e i cui precursori sono i triptofani, è prodotta per il 95% di tutta la quantità corporea dalle cellule enterocromaffini dell’intestino (il restante 5% è prodotta nei neuroni serotoninergici cerebrali). Come potete immaginare la serotonina agisce anche, ed intensamente, sulle funzioni intestinali: è implicata infatti nella fitta rete di azioni e reazioni tra sistema nervoso ed intestino. Per fare un esempio, livelli troppo bassi portano stitichezza, livelli troppo alti diarrea.

Se vogliamo semplificare: laddove rinunciamo alla gioia, immergendoci nelle ombre della vita e delle difficoltà, l’intestino inizia a manifestare problemi di diversa natura.
Esso diventa così, secondo una visione psicosomatica, il purgatorio della mente, l’organo in cui si cerca di eliminare in fretta pensieri disturbanti, emozioni troppo intense, rabbia, frustrazioni, fantasie sessuali inaccettabili, violenza, paura, pensieri troppo sporchi, in pratica la nostra Ombra, che non riusciamo ad accettare e tollerare razionalmente, delegandoli al lavoro e alla fatica del corpo.
La nostra mente bassa, l’intestino, si fa carico di esprimere ed allontanare ciò che la nostra mente alta, il cervello, non riesce ad accettare e di cui non può farsi carico, un troppo che non riesce a gestire. Cercheremo allora inconsciamente di nascondere questi pensieri e queste emozioni seppellendoli nell’intestino. Quando il non digerito diventa troppo ingombrante, il nostro secondo cervello inizia a manifestare spasmi, dolori e disagio, che ci parlano della dolorosa lotta intestina, per l’appunto, tra il procedere in avanti ed il tornare indietro, tra lasciare andare e trattenere, tra dentro e fuori.
Queste coppie di forze contrapposte ci raccontano di persone in cui l’espresso e l’inespresso si fronteggiano, e l’aggressività viene rivolta a sé, attraverso il forte dolore provocato dai crampi intestinali.

Attraverso l’esperienza corporea arriviamo a comprendere ed accettare che in noi vivono sentimenti opposti. Diventare consapevoli che esiste un nostro lato ombra, senza necessità di colpevolizzarsi e punirsi, diventa allora un percorso di liberazione e di agevolezza.
Attraverso l’intestino, grazie ai suoi sette metri di implacabile discriminazione, abbiamo la possibilità di riconoscere minuziosamente tutto ciò con cui siamo venuti a contatto, e di separare il nutrimento da ciò che non lo è. Se riflettiamo bene, questa è la stessa attività svolta dal cervello, ad un altro livello: attraverso di esso discriminiamo cosa ci è stato utile e cosa no.

L’intestino, secondo questa chiave di lettura, diventa allora il luogo in cui più di ogni altro elaboriamo i nostri vissuti in termini fisici, con un linguaggio che parla attraverso tensione ed elasticità, dolore e agio, stasi e movimento, e che possiamo imparare a riconoscere e a leggere per conoscerci ogni volta un po’ di più.

Come sta il nostro intestino, se accettiamo di vivere diversamente le nostre emozioni?
Come si comporta se iniziamo a riconoscere i nostri sentimenti negativi?
Abbiamo ancora quei fastidiosi crampi alla pancia, se ammettiamo a noi stessi di essere costantemente a disagio, arrabbiati o confusi?
E, ancora, siamo poi così confusi, se iniziamo ad ascoltare i segnali che ci dà, e a vivere un po’ più “di pancia”?

Siamo sicuri che, dopo aver letto queste poche righe, avrete molto su cui riflettere, o ancora meglio, da digerire: leggere se stessi attraverso il linguaggio degli organi e dei loro significati può sembrare piuttosto difficile, ma in realtà è molto più semplice di quello che appare. Basta ricominciare a sintonizzarsi con le parole della Natura, come fanno i bambini e gli animali, e improvvisamente la nostra mente potrà accedere a una visione più chiara.

Vi invitiamo a provare, e vi aspettiamo lunedì sui social per il prossimo organo!

Luca e Nicoletta

La Danza del Cuore

Il collegamento tra malattie fisiche e vita emotiva (il “regno” del cuore) è conosciuto da sempre, basti pensare che le prime formulazioni sul rapporto mente-corpo sono state poste in modo sistematico a partire da Platone, ed è proprio questo approfondimento che ogni venerdì cerchiamo di esplorare meglio.
Spesso, quando si tratta della percezione del corpo, il miglior modo per scoprire questo legame è osservare i modi di dire che esistono su un determinato organo.
Ad esempio, in tutte le culture, il cuore rappresenta il centro dell’affettività, e nel linguaggio comune utilizziamo spesso questa metafora. “Grazie di cuore”, “ho il cuore pieno di gioia”, “ti amo con tutto il cuore”, “ho sentito una stretta al cuore”, “mi hai spezzato il cuore”, “ho il cuore in gola”: sono solo alcune delle espressioni che associamo al grande Direttore d’Orchestra del nostro corpo.
Tutte queste espressioni rivelano il simbolismo emotivo racchiuso in quest’organo, e nella motilità cardiaca: ad essi vengono associati sia concetti positivi, legati all’amore, all’amicizia, alla bontà, sia concetti negativi, legati al dolore, alla separazione, alla tristezza.

Il legame tra separazioni e cuore coinvolge strettamente il sistema ormonale e la risposta agli stimoli di stress: abbandoni e separazioni provocano emozioni intense come dolore, preoccupazione, angoscia, tristezza, sensi di colpa, vergogna.
La difesa conseguente che si sviluppa in risposta a tali emozioni, come l’immobilità o la disperazione, nasce dal sistema nervoso autonomo e reinforma tutto l’organismo, e di conseguenza quello ormonale e immunitario.
Ad esempio in diversi studi è stata riscontrata una connessione tra infarto e rottura di relazioni. L’associazione, in alcuni casi, si è evidenziata anche in rapporto all’anniversario della rottura; esiste addirittura la “sindrome dal cuore infranto” (sindrome di Takotsubo) che è una patologia che si manifesta con una disfunzione del ventricolo sinistro come conseguenza a un evento di vita emotivamente stressante e doloroso.
Così, espressioni come “mi hai spezzato il cuore“, non costituiscono solo la metafora di un dolore, ma la reale conseguenza di una forte sofferenza psichica legata alla separazione.
Il dolore vissuto porta a conseguenze fisiche che condizionano negativamente le funzioni vegetative ed endocrine tanto da provocare vere e proprie lesioni organiche.
Inversamente però, anche la guarigione risulta essere collegata a una dimensione relazionale: alcuni casi di regressione spontanea da malattie sono apparsi associati a miglioramenti nelle relazioni interpersonali.

Ma, in definitiva, in che modo si possono ottenere queste condizioni apparentemente miracolose (e che a volte non sono propriamente spiegabili)?
Vi sarete sicuramente imbattuti nell’etimologia della parola “coraggio”, che si parafrasa normalmente in “agire con il cuore”, o “azione del cuore”, e per quanto sia molto affascinante immaginiamo che voi abbiate avuto una certa difficoltà e descrivere quale sia quell’azione.
Spesso tentiamo di costruire risposte molto complesse a domande apparentemente difficili, ma in realtà quelle più giuste sono molto semplici.
Ricordate, come abbiamo scritto questa settimana, che il Cuore è considerato, nelle medicine tradizionali di tutto il mondo, l’organo più importante, governatore di tutto il corpo?
Ebbene, questa sua funzione non è solo una metafora di sicuro effetto, ma è una profonda verità.

Senza paura di esagerare, possiamo dire che il ritmo cardiaco, proseguito in modo pressoché identico dal passaggio dell’onda pressoria all’interno dei vasi (soprattutto delle arterie) costituisce uno dei ritmi fondamentali dell’esistenza di tutto l’organismo, e che sintonizzarsi e sincronizzarsi su di esso è una potente fonte di benessere e salute, alla portata di ognuno di noi.
Il battito cardiaco è infatti un vero e proprio metronomo per le funzioni di tutto il corpo. È risaputo che una buona vascolarizzazione (in entrata e in uscita) costituisce il presupposto per una buona fisiologia cellulare, tissutale e sistemica, ma è poco considerato che la buona irrorazione dei tessuti è determinata dalla libertà dell’onda pressoria esercitata dal cuore e dai vasi sanguigni di raggiungere anche la cellula più lontana. In altre parole, il cuore deve esercitare costantemente una forza dinamica sufficiente a garantire questo flusso, comportandosi da fonte del movimento intrinseco di tutti gli altri organi e tessuti.
Questo si specchia nel fatto che il cuore è un organo straordinariamente autonomo e versatile, che in linea teorica può continuare a funzionare nelle situazioni più avverse, anche nel limite della mancanza di controllo da parte del sistema nervoso, che genera anche campi di risonanza elettromagnetica per tutto il resto del corpo, armonizzando il sistema al maggiore stato di equilibrio possibile momento dopo momento.
L’ascolto del proprio battito cardiaco, proposto nel video di questa settimana, come atto di biofeedback molto immediato e di semplice esecuzione, è carico di grandi benefici, primo fra tutti il garantire spazio e tempo per questa possibilità “bilanciatrice” dell’attività cardiaca.
Mettendosi in connessione con il battito del cuore, ognuno di noi ritorna alla fonte stessa della vita, e riscopre le abilità di regolazione e di modulazione che gli corrispondono.

Vi invitiamo a praticare questo semplice esercizio per un certo periodo: potreste notare benefici inaspettati sulla salute psicofisica e sul vostro modo di percepire e vivere il mondo.
Raccontateci la vostra esperienza nei commenti.

Buon weekend

Luca e Nicoletta

Amare i difetti

Di Nicoletta Giancola

Se ti mostrassi i miei difetti, mi ameresti ancora allo stesso modo?
Recitava così il ritornello di una canzone che stavo ascoltando, quando ho riflettuto che questa domanda racchiude l’essenza di una paura piuttosto comune, ovvero la paura di mostrarsi per come veramente si è. Questo fa paura.

Non a caso, una delle paure più diffuse al mondo è parlare in pubblico, proprio perché la voce è l’espressione più pura, insieme agli occhi, di chi siamo veramente, è la nostra essenza.

Provate a rivolgere questa domanda innanzi tutto a voi stessi: riusciamo ad amarci nonostante ciò che noi vediamo come difetto?

Come sempre, se riusciamo a farlo con noi stessi, insieme alla costanza di farlo ogni giorno, decadrà la paura e il bisogno di rivolgere questa domanda all’esterno. Smetteremo di chiedere all’altro, che sia un genitore, un figlio, un marito, una moglie o un amico, di amarci per come siamo.
È una conquista difficile provare amore per se stessi, poiché amare è comprendere prima di tutto la molteplicità di aspetti di cui siamo fatti ed iniziare a vedere oltre tutte quelle caratteristiche di noi che non ci piacciono, cosa che normalmente ci viene naturale. È vedere le nostre qualità e gli aspetti che fanno di noi ciò che siamo, la nostra unicità, al di là che ci piaccia o meno.

Una semplice pratica è quella di soffermarsi ad osservarsi davanti allo specchio, se si tratta di una parte fisica, oppure si può osservare la qualità di una parte del nostro carattere che critichiamo, chiedendoci: quando e come è utile questo aspetto di me?
Ad esempio un’eccessiva rigidità nei cambiamenti può nascondere una capacità di portare avanti un obiettivo: allo stesso tempo, se emerge troppo non permetterà di adattarci ai cambiamenti necessari per portarlo a termine.

Ogni volta che riusciamo ad osservare diversamente un aspetto, e lo integriamo nel nostro campo di consapevolezza, proseguiamo con un altro e poi un altro ancora fino a farlo diventare un gioco in cui con leggerezza impariamo a conoscerci ed amarci di più.

Gli Spazi del Rispetto

“La bellezza del cerchio è che non possiamo guardarci alle spalle, e la forza del cerchio è che possiamo solo vedere la bellezza di ognuno”.
(Angaangaq Angakkorsuaq)

Il concetto di rispetto è utilizzato in varie forme nella nostra società, in maggioranza legate alla capacità di avere riguardo per il nostro prossimo. È infatti il guardare a fondo, e quindi curarsi di, a costituirne il maggior significato.
La parola è infatti collegata alla facoltà umana di osservare e valutare in profondità: la parola latina respectus, da cui deriva, è infatti un composto che mette in relazione la particella re- (a fondo, di nuovo), e del verbo spicere, che porta con sé il significato di osservare, considerare, guardare, ed è strettamente collegata a diverse parole che hanno a che fare con queste facoltà. Rispetto, specchio e scopo hanno infatti la stessa provenienza, rintracciabile nella radice indoeuropea SPAC- che ha prodotto spicere (guardare) – da cui rispetto e specchio – e σκοπός (osservatore) – da cui scopo. Curiosamente, dalla stessa radice deriva σκέπτομαι (considerare) – da cui scettico, ovvero uno che osserva, che specula.
La stessa parola specie, a cui il latino species riconosce il significato di forma, apparenza, conformazione, deriva da questa area: le parole derivate dalla radice SPAC- (o SPEC-) hanno a che fare con la capacità di vedere, riflettere, considerare qualcosa o qualcuno in modo profondo e preciso, ovvero non grossolano, avventato o parziale.
Il rispetto è per lo più considerato come la capacità di essere consapevoli delle caratteristiche di una persona, di una cosa o di un contesto, osservandone per così dire le regole proprie, senza scavalcare i loro confini.

Da un punto di vista del corpo sociale, l’essere umano si può riconoscere in diversi spazi in cui vive diverse sfumature di esperienza: come già sottolineato dall’antropologo Edward T. Hall negli anni ’60, esistono diversi e variabili spazi prossemici (da proximitas, vicinanza), che delineano il nostro vissuto sociale. A grandi linee, almeno nella cultura occidentale, possiamo identificare quattro fasce di spazio, in cui all’accorciarsi della distanza aumenta il grado di intimità, e diminuiscono gli altri che vi hanno libero accesso: un primo di tipo pubblico, dai 3 ai 7 metri di distanza dal nostro corpo; uno sociale, da 1 a 3 metri; uno personale, da 40 cm circa a 1 metro; e uno intimo, al di sotto dei 40 cm fino al contatto diretto.
In base al contesto, alla natura della relazione tra gli interlocutori e alla cultura di appartenenza, le distanze possono variare o modularsi, ma restano importanti nello stabilire la qualità della relazione interpersonale, nel valutarne rischi e benefici, e nel modulare il comportamento fisico, vocale, e psichico.
Ogni relazione – anche quella terapeutica – si muove in qualche modo attraverso questi spazi, preferendone a seconda dei propri scopi e delle proprie modalità uno o molti. Le discipline corporee, ad esempio, ognuna a suo modo, hanno maggiormente a che fare con lo spazio intimo e quello personale, rispetto alle discipline basate sul dialogo, che spesso si svolgono nello spazio sociale, per mantenere una distanza fisica sufficiente a concentrarsi su un dialogo intimo.
In questi spazi giocano fondamentale importanza il vissuto sensoriale, la regolazione delle emozioni e la sintonizzazione cognitiva con l’altro: se uno di questi tre elementi viene meno, l’impressione di sentirsi rispettati può vacillare. Una visita medica si svolge mediamente nello spazio sociale e personale, ma l’esperienza può essere molto diversa: quante volte le persone raccontano di essere state a malapena guardate dalla persona di fronte a loro, al di là di una scrivania che viene vissuta come un muro? Con un familiare, soprattutto se è un partner, condividiamo liberamente lo spazio intimo, ma quante volte può capitarci di non sentirci rispettati da una sua frase o da una sua parola? 
Il concetto di rispetto, come forma di osservazione degli spazi prossemici e delle loro regole, è sicuramente il più comune e considerato nella nostra società: anche prima del dibattito semantico tra distanziamento fisico e distanziamento sociale emerso con le attuali norme sanitarie, lo spazio fisico e sensoriale si mescolava e si confondeva con il vissuto sociale.
Tuttavia, molto spesso questo concetto è a senso unico; è infatti facilmente concepibile dall’altro o dall’esterno verso il nostro interno (in senso afferente), ma difficilmente ci chiediamo davvero se siamo noi a rispettare gli altri o l’esterno (in senso efferente).

Un significato differente, più affine al secondo esempio, è quello che lega il rispetto al rispecchiamento, così come le due parole sono collegate semanticamente attraverso la parola latina respicio.
Ogni persona, oggetto o evento che entri in uno dei nostri quattro spazi può essere osservato come esterno, oppure come se fosse uno specchio che restituisce alla nostra percezione le fattezze (species), e le caratteristiche del nostro spazio.
Nel corpo, inteso come sistema biologico, questo fenomeno è molto studiato: è infatti alla base dei complessi meccanismi che orientano il nostro corpo e ne scolpiscono le forme in relazione allo spazio circostante (interocezione, propriocezione, esterocezione).
È molto più difficile accedere a questa forma di osservazione nelle relazioni emozionali, poiché ci mette di fronte al fatto che ogni percezione che abbiamo del mondo emerge, in realtà, dai nostri filtri e dalle nostre chiarezze, più che da una realtà oggettiva: ne deriva che ogni evento, o meglio la lettura che ne facciamo, è in qualche modo sotto la nostra responsabilità. Difficilmente, infatti, chi ci taglia la strada in macchina vuole farlo per danneggiarci, ma noi lo percepiamo ugualmente come se fosse un atto direttamente rivolto a noi, sovrapponendo all’evento una lettura che deriva da uno schema interno preesistente, e non corrispondente all’evento stesso. È un meccanismo studiato da molte discipline differenti, da quelle spirituali – che spesso parlano della legge dello specchio, o del teatro interiore – alla psicologia – che ce lo descrive come parte delle distorsioni cognitive (Beck).
Siamo quindi testimoni di un gioco di specchi, in cui la realtà non è oggettivamene quella che percepiamo, ma emerge fenomenologicamente da ciò che noi leggiamo di essa. Tutto questo non è affatto privo di rischi, come ci racconta il mito di Narciso, condannato a innamorarsi della sua stessa immagine riflessa e infine suicidatosi perché non poteva raggiungerla in nessun modo: non dobbiamo confondere ciò che possiamo vedere di noi attraverso la realtà, come se fosse uno specchio, con il fatto di esserne gli unici padroni, evitando di metterci in relazione. Quest’ultima posizione può solo portare a un vissuto illusorio, e in definitiva distruttivo.

C’è uno spazio in cui possiamo evitare questi rischi, e sperimentare rispetto e rispecchiamento con il giusto contenimento: il cerchio. Esso è una forma che l’essere umano frequenta e delinea da molto tempo, e di cui si è servito frequentemente nella propria storia sociale e comunitaria. Nel cerchio, infatti, a seconda della sua estensione e del numero di persone che lo compongono, è poco probabile che il nostro spazio personale venga invaso, ma piuttosto sperimentiamo l’accoglienza. Idealmente, pur aprendosi alla possibilità di essere osservati da altri, i nostri spazi sono rispettati e possiamo, in altre parole, essere vulnerabili senza sentirci esposti al pericolo.
C’è una grande varietà di attività che sono in tutto il mondo associate al cerchio, ma tutte coinvolgono almeno la danza/movimento, il canto/musica, e la narrazione. Mentre le prime due possono essere molto esplicite (molte forme di celebrazione sociale, così come di giochi infantili e di attività terapeutiche, si ricollegano alla danza e al canto in cerchio), la terza può essere sottesa e non dichiarata, ma è sempre presente. In un gioco in cerchio (Giro giro tondo, casca il mondo…), i bambini raccontano di sé attraverso il corpo, le movenze, gli sguardi e le voci molto più di quanto farebbero rispondendo a una domanda, senza usare altre parole che quelle della canzone che cantano tutti insieme.
Questa attività, che è il retaggio di un uso ben più antico e profondo, è connaturata a tutte le culture in diversi livelli, che hanno costruito in cerchio i loro luoghi più sacri, cercando per così dire di immortalare la figura che istintivamente crea un gruppo umano prendendosi per le mani, ma che si disperde con essi.

Ritorna quindi nel detto eschimese che apre questo articolo, il senso più profondo del cerchio, come luogo di aggregazione e sostegno, e di rispetto: nell’incapacità di parlarci alle spalle, la possibilità di guardare ai difetti dell’altro con la stessa compassione con cui guarderemmo i nostri; nel poterci guardare negli occhi, la possibilità di vedere la bellezza che sorge anche da quei difetti.

Sulla Sintonia

“Essere umani, piante o polvere cosmica: tutti danziamo su una melodia misteriosa intonata nello spazio da un musicista invisibile”.
(Albert Einstein)

L’esperienza umana è da sempre divisa tra la misurazione quantitativa dei fenomeni e la loro resa qualitativa. Curiosamente, mentre è relativamente semplice definire i parametri quantitativi (almeno una volta che si sappia come fare), è piuttosto difficile dare una definizione universale di quelli qualitativi.
Tutti noi sappiamo misurare l’altezza di una parete, di una persona o di un suono, ma quanti sanno definire con precisione le relazioni che quella parete contiene, le emozioni che evoca quella persona, e i ricordi che quel suono produce?

Il termine tono deriva direttamente dal greco τόνος, o dal latino tonus, entrambi con significato di tensione: è, infatti, la tensione dell’oggetto (corda, membrana, aria, ecc.) che vibrando produce un suono a determinare l’altezza della nota emessa. Analogamente, il termine sintonia, composto di σύν (con, insieme) e τόνος (suono, tono) significa, letteralmente concordanza di tensione, o accordo di suoni.
Mentre tono fa parte del primo gruppo (tensione di un oggetto e altezza sonora sono infatti misurabili), sintonia entra a ragione a far parte del secondo, poiché descrive una relazione, e non un oggetto. Colloquialmente, diciamo che un oggetto è sintonizzato con un altro quando alcune delle reciproche caratteristiche (a.e. forza, ritmo, ampiezza) si trovano in un rapporto di eguaglianza o di armonia. Per estensione, diciamo di sentirci in sintonia con qualcuno o con un fenomeno quando questi incontrano favorevolmente le nostre caratteristiche, o le due cose si sovrappongono.
Ma cosa intendiamo davvero?

In realtà, possiamo dividere con precisione gli ambiti solo parlando della parola tono.
In anatomofisiologia, essa descrive l’intervallo di tensione ottimale che deve sussistere in un muscolo per espletare la sua funzione caratteristica, e per estensione la distribuzione di tensione necessaria a mantenere l’equilibrio statico di un sistema muscoloscheletrico.
In musica, essa descrive un particolare intervallo, o tensione, tra due suoni (quello di seconda maggiore, ovvero a.e. quello tra un Do e un Re), e ne derivano i concetti di tonalità, ovvero l’insieme dei principi armonici di un brano, e di intonazione, ovvero di aderenza armonica a un elemento o sistema musicale.
In linguistica, il tono è un tratto prosodico che definisce la variazione o la costanza del profilo melodico di una sillaba (per cui si definiscono lingue tonali, come il cinese, e lingue non tonali, come l’italiano); l’intonazione, invece, è il profilo melodico dell’intera frase (a.e in italiano ascendente, come in una domanda, o discendente, come in un’affermazione).

Potremmo aggiungere molti altri ambiti al nostro elenco, ma ciò che ci interessa sottolineare è l’uso del termine che si fa colloquialmente: mentre il significato di tono muscolare rimane relativamente simile a quello specialistico, di sicuro un linguista o un musicista non lo userebbero mai per descrivere quel misto di caratteristiche (timbro, altezza, intensità, ritmo) che definisce l’intonazione di una voce.
Parliamo infatti di tono di voce riferendoci alle variazioni e alle caratteristiche che ci comunicano non tanto il contenuto cognitivo dell’enunciato (cosa viene detto), ma bensì quello emotivo, il colore del discorso (come viene detto qualcosa).
Queste componenti della comunicazione, dette para-verbali (dove quelle non-verbali sono determinate, appunto, dalle variazioni di tono e dinamica del corpo), provengono da una fase in cui l’uomo, e il bambino che ripercorre le sue tappe evolutive, non era padrone del linguaggio verbale, ma comunicava per mezzo di nuclei melodici strutturati come frasi musicali, in cui si inserivano sia informazioni quantitative (distanza, altezza, ecc.) sia soprattutto qualitative (emozioni): letteralmente, l’uomo è stato prima cantante che parlante, e mantiene questa caratteristica in ciò che chiamiamo, appunto, intonazione, e che percepiamo e decodifichiamo, spesso senza rendercene conto, come elemento di colorazione della comunicazione.

È dal tono e dalla dinamica muscolare e vocale, che riusciamo a comprendere – non senza un certo margine d’errore – se il nostro interlocutore è arrabbiato o stanco, felice o preoccupato, al di là di ciò che ci dice.
Se per caso parlaste con un interlocutore cinese, non sareste probabilmente in grado di leggerne i comportamenti come fareste con un vostro amico, o comunque con una persona proveniente dalla stessa cultura e contesto linguistico. Anche nel secondo caso, avreste probabilmente alcune difficoltà: vi è mai successo, sentendolo parlare, di ritenere un amico triste, mentre era semplicemente stanco?
Questo fenomeno ci dimostra che la sintonia non è un’esperienza semplice, e non sempre si realizza in modo completo: per usare ancora un esempio molto comune, a chi non è capitato di sintonizzarsi su un canale radio o video, ma di non riuscire a ricevere un segnale completamente chiaro? Lo stesso fenomeno, sebbene con variabili molto più complesse (e quindi margini d’errore molto più importanti) avviene nel caso della comunicazione umana.

Per darne una definizione generale, la sintonia (o sintonizzazione) è la concordanza, parziale o completa, tra lo stato di un oggetto e di – almeno – un secondo messo a confronto: è, quindi, sempre, un processo di relazione. In uno degli esempi sopra, il nostro amico è il primo oggetto, e noi il secondo: potremo sintonizzarci correttamente con lui solo se saremo in grado di ricalcare correttamente il suo stato, riducendo al minimo il grado di interferenza. Nell’età evolutiva, questo fenomeno è ben osservato e studiato nel rapporto madre-bambino, in cui il secondo ricalca e poi sperimenta le variazioni sul comportamento fisico e vocale della prima, per elaborare strategie di interazione con l’ambiente e crescere in abilità e competenze.

Estendendo il nostro esempio, capiamo come possiamo sperimentare l’esperienza dell’essere in sintonia non solo con un’altra persona, ma con un qualsiasi altro ente: un animale, una pianta, un cibo, una musica, una città, una stagione, un pianeta, un periodo storico, eccetera.
In tutti i casi, l’armonia percepita tra noi e il secondo soggetto è sicuramente causata dal grado di concordanza con una o più delle sue caratteristiche, che possiamo riconoscere e sviluppare dentro di noi.  

Lo studio di questo fenomeno è presente in tutti i tempi e le culture, e si basa sulla relazione qualitativa tra diversi ambiti e oggetti, non necessariamente simili. Così, per esempio, le medicine tradizionali di tutto il mondo hanno osservato la sintonia tra la natura e il corpo umano, elaborando strategie di cura e di promozione della salute basate non tanto su caratteristiche quantitative, ma su un principio simbolico e di analogia che sintonizza l’uomo a determinate caratteristiche delle stagioni, delle piante, delle pietre, degli animali, degli astri e degli elementi naturali come forma di promozione dell’armonizzazione delle energie interne (ciò che chiamiamo autoguarigione).
Da questa forma di osservazione, presente nell’uomo fin da quel tempo in cui ancora non possedeva un linguaggio verbale, ma una musilingua olistica e simbolica, si è strutturata con il tempo un’immagine che attraversa molte culture, quella di un Canto Universale, a cui tutti i fenomeni devono accordarsi e relazionarsi, o riaccordarsi in caso di perdita della connessione. I Greci, da Pitagora in poi, parlavano di Musica delle Sfere o Armonia Universale (concetto ripreso anche nel Rinascimento); nella mitologia Vedica, il Nada Brahma è il Suono Universale, manifestato nella sua forma più pura dal suono Om come suono originario; nella mitologia ebraico-cristiana, il mondo è manifestazione della Parola, concepita inizialmente come Suono, di Dio.
I Celti chiamavano questo suono Oran Mòr, “Grande Canto”, descrivendolo come la somma interferenziale di tutti i suoni dell’Universo, onnipresente nella trama stessa del mondo: curiosamente, l’astronomia moderna ci dimostra l’esistenza della Radiazione Cosmica di Fondo, ovvero l’impronta vibrazionale (elettromagnetica, ma convertibile in suono) del suono originario del Big Bang, che ancora si espande nell’Universo.

Non a caso, la musica è stata il mezzo preferito di espressione dei processi di risintonizzazione al Grande Canto in moltissime culture, e ha sempre trovato spazio nella rivitalizzazione e nei processi di guarigione dell’essere umano: che sia attraverso il canto, la danza, l’ascolto o la parola, tutti gli esseri umani ritrovano il proprio stato di salute quando ritrovano l’armonia con i cicli naturali che i nostri progenitori studiavano e conoscevano intimamente.

La prossima volta che vi ritroverete in una situazione di disagio, chiedetevi: se mi fosse possibile, cosa potrei fare per ristabilire la sintonia con l’Armonia Universale? Scoprirete che la risposta è raramente complicata o fuori dalle vostre possibilità immediate: spesso, basta un respiro, un gesto, una risata, un canto, o l’ascolto attento e profondo della Natura per rimetterci sulla via giusta.

Vivere il Flusso

“Mentre ci illudiamo che le cose rimangano uguali, queste cambiano proprio sotto i nostri occhi, di anno in anno, di giorno in giorno”.
(Charlotte Perkins Gilman)

Da un punto di vista fisico, un fluido è un oggetto privo di una forma stabile, soggetto a cambiamenti di forma e all’adattabilità ad un contenitore, se costretto in uno spazio solido.
Per estensione, è definito fluido tutto ciò che è in grado di passare da una conformazione spaziotemporale ad un’altra con relativa facilità.

Il flusso, come azione di ciò che è fluido, è il processo attraverso cui un fenomeno (un fiore, una persona, un periodo di tempo, una roccia, un calzino, …) attraversa lo spazio e il tempo e in questi si modifica, con diverse velocità e dinamiche. La sua caratteristica è quella di non produrre attrito, o di produrne molto poco: come esseri umani, ci diciamo nel flusso quando riusciamo a passare attraverso cambiamenti di stato anche di grande entità con la minima resistenza possibile.

Diciamo di sentirci fluidi nel corpo quando sperimentiamo la sensazione di riuscire a compiere un movimento con facilità e il giusto grado di tensione, necessario a condurre in modo progressivo e consapevole il gesto, ma decisamente al di sotto della soglia della fatica e del dolore.
Un braccio può aiutarci a farne esperienza immediata: quale escursione riusciamo a coprire con il movimento, senza percepire eccessiva tensione? Essa, a prescindere dalla sua entità, è lo spazio che il nostro arto può raggiungere ed esplorare in modo fluido.
Se proviamo a testare le capacità di movimento del nostro braccio tutti i giorni, esse rimangono uguali, o cambiano in base al momento? Allenandoci a sentire il movimento fluido di una nostra parte, dopo quanto tempo essa raggiunge il suo massimo grado di libertà?
Allo stesso modo, possiamo testare e incoraggiare la fluidità del nostro respiro – cosa lo libera, cosa lo costringe? -, della nostra digestione – quali alimenti la rendono facile, quali la ostacolano? – e di tutte le attività del nostro corpo.

Quando ci rivolgiamo alla nostra dimensione emotiva, possiamo notare facilmente quali emozioni risultino fluide, osservabili ed esprimibili in modo libero e disteso, e quali al contrario siano caratterizzate da una certa densità, rigidità e difficoltà di caratterizzazione, catalogazione e verbalizzazione.
Come mammiferi, siamo profondamente inseriti in una dimensione emotiva che spesso neghiamo, immobilizziamo o tratteniamo a favore di una più apparentemente efficace razionalità: sollecitate dall’ambiente interno ed esterno, le emozioni sono una parte integrante della fisiologia umana, e un sano contatto con esse è caratterizzato da una capacità di osservarne il sorgere e il dissolversi, senza rimanere ancorati allo stato che esse ci inducono.
La prossima volta che proveremo un’emozione intensa, sia essa positiva o negativa, proviamo a fare questo esercizio di osservazione: dopo qualche tempo, i riverberi di quello stato sono ancora presenti? Rimaniamo ancorati alla grande gioia o alla grande rabbia che abbiamo provato dieci ore fa, anche se le condizioni che le hanno create si sono dissolte?
Se la risposta è sì, qualcosa in noi sta resistendo a un cambiamento che, in definitiva, è già avvenuto: siamo apparentemente usciti dal flusso, e possiamo ritornare ad esso nel momento in cui ci lasciamo scorrere di nuovo in ciò che è presente.

In psicologia, l’esperienza di flusso è stata descritta dall’ungherese Mihály Csíkszentmihályi, che lo ha identificata come uno stato di completo coinvolgimento dell’individuo, sul piano fisico, emotivo e mentale, in una certa attività, in uno stato che si situa tra la massima attivazione – senza sfociare nell’iperattivazione – e la massima distensione – senza divenire rilassamento passivo, o addirittura depressivo.
Il soggetto che si trovi in questo stato farà esperienza di una grande focalizzazione, a dispetto di una netta diminuzione del senso di sé (se non per quella parte di esso che è necessaria all’attività); di un’elasticizzazione o addirittura di un annullamento del senso del tempo; di uno stato di tensione ottimale (né troppa, né troppo poca); e, non da ultimo, di un piacere intrinseco all’attività stessa, che risulta naturale e, appunto fluida.
Non a caso, la definizione di questo stato è la stessa della trance e degli stati di massima concentrazione ascrivibili all’attività sportiva, alla danza, alla meditazione, alla musica, al sogno consapevole, e allo spazio del rito e della cerimonia, e a tutte quelle attività in cui l’esperienza umana è intrisa di una naturalità e di un senso di piacere che la rendono ottimale.
Ripensiamo all’ultima occasione in cui abbiamo vissuto un’esperienza simile davanti a un film, ascoltando una canzone, facendo attività fisica, leggendo un libro, o qualsiasi cosa ci dia piacere e agio: ci accorgeremo di riconoscere le caratteristiche del flusso, e soprattutto che esso è a portata di mano ogni giorno, in ogni istante.

Che sia del corpo, del cuore o della mente, la fluidità permette l’adattamento all’ambiente e alle nostre modifiche interne, ampliando ciò che possiamo fare per alimentarla: lavorare sul corpo in modo consapevole, alimentarci a sostegno del nostro sistema, esercitarci a pensare sempre almeno da un’altra prospettiva e confrontarci almeno con un’altra persona su un dubbio o un problema.
Scopriremo presto molti modi di ammorbidire quelle rigidità che solo poco prima ci sarebbero sembrate insormontabili.