La metafora dell’Arpista sul cammino della salute.

di Luca Cascone

Sebbene l’arpa sia diffusa in tutto il mondo con diverse varianti, e detenga il primato di anzianità tra gli strumenti a corde, ha un’importanza insuperata in quell’area geografica denominata “celtica” (sintetizzando, tutto il nord-ovest Europeo, continentale ed insulare), specialmente in Irlanda, dove sopravvive ancora oggi una cultura fortemente radicata di questo strumento come identitario di un popolo e del suo patrimonio musicale e folklorico, tanto da farne l’emblema nazionale.
Non mi addentrerò qui nella complessa e affascinante storia di questo legame etnomusicologico e antropologico, ma prenderò in prestito due delle sue emanazioni per legarle al concetto di Salute.

L’arpa porta con sé un’interessante metafora, tramandata dall’antica scuola sapienziale dei Druidi e dei Bardi: ognuna delle sue parti strutturali ha una corrispondenza con il nostro sistema-corpo. La mensola, la parte superiore, a cui si fissano le corde e da cui si possono allentare e tendere, corrisponde alla mente, che può regolare o influenzare i processi del nostro sistema in modo da renderli più o meno intensi. La colonna, che regge e connette la mensola e la cassa, garantisce la trasmissione della tensione e della vibrazione, ed è equiparabile alla nostra dimensione emotiva. In altri esempi – che personalmente preferisco – è la tavola armonica, a cui si agganciano inferiormente le corde e che ne struttura il timbro di base, ad essere presa ad esempio per l’analogia con le emozioni. La cassa, infine, amplifica e modula il suono, sostenendo il resto dello strumento, esattamente come fa il corpo fisico con i nostri vissuti mentali ed emozionali.
Ognuna delle parti, va da sé, deve essere il più possibile solida e in stretta connessione con le altre perché lo strumento funzioni: è questo il primo principio della Salute come processo integrato non solo tra i diversi sistemi biologici, ma anche tra le diverse dimensioni del nostro vissuto, personale e sociale.

In Irlanda esiste un detto, passato oralmente di maestro in allievo, come vuole la tradizione, per generazioni che si perdono nella storia: “Un arpista passa metà della sua vita ad accordare, e l’altra metà della vita a suonare uno strumento scordato”.
Da arpista, vi posso garantire che è una legge universale: un refolo d’aria, una variazione d’umidità improvvisa, un pensiero passato di traverso tra voi e gli ascoltatori, e scordatevi (appunto) un’accordatura decente.
Al di là dei sorrisi (molti) del pubblico e (pochi) miei quando racconto questa storia, vi invito a riflettere sul fatto che la nostra salute funziona esattamente secondo lo stesso principio.
Siamo infatti costantemente immersi in un processo che vede oscillare il nostro sistema corpo-mente-emozioni tra due tensioni opposte: quella all’aggregazione e alla stabilità strutturale e quella al disordine, alla disgregazione e all’instabilità. In due parole, all’Ordine e al Caos, all’Accordatura e alla Scordatura.
Viviamo spesso l’impressione erronea che la prima corrisponda alla salute/benessere/integrità, e la seconda alla malattia/disagio/disabilità: entrambe non sono situazioni statiche, ma processi dinamici e complessi che si intercorrelano. L’oscillazione tra Ordine/Accordatura e Disordine/Scordatura è necessaria al bilanciamento costante delle informazioni che il sistema riceve ed emette, e alle sue capacità di far fronte agli stimoli. In gergo scientifico, questo processo si chiama equilibrio allostatico, ed è il fondamento della salute: avere sufficienti riferimenti, conoscenze e riserve di energia per adattarsi ai cambiamenti esterni ed interni, senza che, prevalendo sul proprio contrario, l’ordine diventi congelamento e staticità, e il disordine diventi disgregazione e distruzione.
Questo vale ad ogni livello, dall’organismo umano a quello sociale, planetario e cosmico (non è la gravità a mantenere in relazione due stelle, mentre la distanza impedisce loro di collassare l’una sull’altra?).


È a questo punto che dobbiamo far entrare in gioco i tre elementi che danno ragione dell’esistenza dell’arpa – e anche del corpo umano: le corde, il suono e il suonatore.

Partiamo dalle corde: sono la voce stessa dello strumento, che se ben costruito e mantenuto può sopportarne l’immensa forza tensiva (a seconda delle corde e del tipo di strumento, la cordiera di un’arpa sviluppa una tensione tra i 400 e i 500 kg!) e garantirne la purezza di suono. Perfetta combinazione delle tre componenti descritte prima, le corde sono il vero cuore dello strumento, così come il cuore dell’uomo si esprime puramente solo se corpo, mente ed emozioni sono in armonia tra loro.

Il suono corrisponde alla voce dell’essere umano, talmente caratteristica e fondamentale da essere un fattore identitario: alcuni studi definiscono la voce umana come “volto sonoro”. Non a caso, a meno di impedimenti, nella nostra cultura sono la Voce e la Parola a veicolare pienamente chi siamo, ed è il Logos/Verbo il principio determinante della realtà.

Infine, giungiamo all’Arpista, senza il quale le corde non produrrebbero suono, e nemmeno lo strumento potrebbe essere accordato e tenuto in buono stato: la nostra Anima, allo stesso modo, infonde vita, calore e direzione alla nostra macchina corporea, insieme a tutti i suoi Alleati e alle Forze che la sostengono.

Lo dimentichiamo molto spesso, ma la nostra personalità e i nostri corpi devono accordarsi per mettersi al servizio dell’Arpista, e solo così il canto che produrranno sarà davvero puro e degno di essere cantato ed ascoltato.
Il nostro compito è continuare ad accordarci per essere strumenti in mani più capaci delle nostre. Solo così potremo aspirare alla vera e profonda Salute globale.

Storie perdute, storie ritrovate

Di Luca Cascone

Da circa venti anni, partendo da un’iniziativa svedese degli anni Novanta, in data 20 marzo una sempre più nutrita comunità di narratori celebra in tutto il mondo la Giornata Mondiale dello Storytelling. La data scelta si pone in congiunzione con l’Equinozio di Primavera, il momento di celebrazione della rinascita del ciclo naturale e della Vita che si rinnova.
E quale tradizione umana celebra l’Equinozio più dell’arte della narrazione, che sa ogni volta rinnovare nel presente il passato, il futuro, e i mondi che non sono direttamente davanti ai nostri occhi?

Il tema del 2022 è “Perdite e Ritrovamenti” (“Lost and Found” in inglese), e chi di noi in questi tempi non è sensibile a questo argomento?
Per celebrare insieme alla comunità internazionale, le cui iniziative potete trovare sul gruppo facebook dedicato, abbiamo progettato un percorso di diciannove giorni, dal 2 al 20 marzo, in cui esplorare insieme brevi storie provenienti dalla tradizione di tutto il mondo e la loro ispirazione.
Troverete ogni sera in questa pagina una nuova storia, in versione scritta e narrata oralmente, sia in versione audio che video, e infine un suggerimento di riflessione pratica (scrittura, ascolto, ecc.) per esplorarne il potere.

Il 20 marzo concluderemo il percorso, con chi vorrà, con un incontro serale online, di cui vi sveleremo passo per passo le caratteristiche.
Avviamoci verso l’Equinozio, mentre le notti si accorciano lentamente e la Primavera avanza con un sorriso delicato e luminoso.

Buon percorso!


PRIMA SEZIONE: TESORI, DONI E TALENTI

Mercoledì 2 marzo – Il Tesoro ritrovato

C’era una volta
un grande maestro di nome Rabbi Bunam, che ai giovani che venivano da lui per la prima volta era solito raccontare la storia di Rabbi Eisik, figlio di Rabbi Jekel di Cracovia.

Dopo lunghi anni di dura miseria, che però non avevano scosso la sua fiducia in Dio, questi ricevette in sogno l’ordine di andare a Praga per cercare un tesoro sotto il ponte che conduce al palazzo reale. Quando il sogno si ripetè per la terza volta, Eisik si mise in cammino e raggiunse a piedi Praga. Ma il ponte era sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle ed egli non ebbe il coraggio di scavare nel luogo indicato. Tuttavia tornava al ponte tutte le mattine, girandovi attorno fino a sera.

Alla fine, il Capitano delle guardie, che aveva notato il suo andirivieni, gli si avvicinò e gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa o se aspettasse qualcuno. Eisik gli raccontò il sogno che lo aveva spinto fin li dal suo lontano paese.
Il capitano scoppiò a ridere: “E tu, per dar retta a un sogno, sei venuto fin qui a piedi? Stai fresco a fidarti dei sogni! Allora anch’io, avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno, e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Eisik, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa! Eisik, figlio di Jekel, ma scherzi? Mi vedo proprio a entrare e mettere a soqquadro tutte le case in una città in cui metà degli ebrei si chiamano Eisik e l’altra metà Jekel!”. E rise nuovamente.

Eisik lo salutò, tornò a casa sua e dissotterrò il tesoro con il quale costruì la sinagoga intitolata “Scuola di Reb Eisik, figlio di Reb Jekel”.

“Ricordati bene di questa storia – aggiungeva allora Rabbi Bunam – e cogli il messaggio che ti rivolge: c’è qualcosa che non puoi trovare in alcun luogo, eppure esiste un luogo in cui la puoi trovare“.


[Da “Il cammino dell’Uomo”, di Martin Buber].

Primo suggerimento: prendete un foglio bianco e dividetelo in due colonne. A sinistra scrivete “cosa ho“, a destra “cosa vorrei“.
Potete pensare a una situazione in particolare, a un problema da risolvere, a tutta la vostra vita, o al percorso che ci accingiamo a fare insieme: quale che sia la situazione che scegliete, rifletteteci bene, e raccogliete tutte le impressioni e le sensazioni che sorgono.
Prendetevi tutto il tempo di cui necessitate, e cominciate a riempire la colonna di destra, con tutti quelli che ritenete siano i vostri obiettivi in questa situazione, cosa desiderereste per voi stessi, ciò a cui aspirate (l’essere felici, l’essere soddisfatti, eccetera).
Quando avete finito, dedicatevi alla colonna di sinistra: fate una lista di ciò che già avete realizzato, anche solo parzialmente, e di ciò che potete realizzare. Mano a mano che scrivete, non sembra anche a voi che tutto sommato gli obiettivi che avete non siano così irraggiungibili?
Potreste scoprire, come il protagonista della nostra storia, che gran parte del vostro tesoro è, per così dire, già in casa vostra, e che non ve ne state accorgendo.


Giovedì 3 marzo – I Tre abiti meravigliosi

C’era una volta
un principe che, stanco della vita monotona della corte, decise di viaggiare per il mondo in cerca di avventure. Si travestì quindi da sarto, e partì da solo, all’alba, senza salutare nessuno.

Viaggiò a lungo, facendo molte esperienze, finché arrivò una mattina in una radura nel bosco, al centro della quale stava un pozzo. Accanto al pozzo, una fanciulla piangeva a dirotto.

– Cosa ti succede, dolce fanciulla? Quale dolore ti opprime? -, chiese, avvicinandosi. Anche tra le lacrime, la bellezza della ragazza non veniva in alcun modo offuscata.
– Oh, straniero – disse lei, tra le lacrime – in questo paese, in questo bosco, abita un drago spaventoso che si ciba solo di carne umana. Ogni mese esige una fanciulla in pasto, e questa volta fu il mio turno. Sto attendendo che venga a divorarmi!
Lui non rispose, ma decise che l’avrebbe aiutata: appena ebbe formulato questo pensiero, tra gli alberi apparve un mostro coperto di scaglie, grande quanto un palazzo, dalle sette teste feroci e ghignanti. Il principe non si perse d’animo: incoccò una freccia nel suo arco, prese la mira e centrò il mostro diritto al cuore!
Immaginate la gioia della fanciulla, che si lanciò tra le braccia del salvatore passando dalle lacrime al sorriso. Con le mani ancora tremanti, gli consegnò tre noci dalla sfumatura luminosa.

– Prendete queste noci. Sono magiche, e potranno servirti. Contengono tre abiti: uno, ha intessuta tutta la luce del sole, della luna e delle stelle più brillanti; il secondo ha i colori e la bellezza della terra, dei campi, dei monti, dei fiumi, degli alberi e dei fiori; il terzo, è il più bello, ed è fluido e morbido come il mare, con tutta la bellezza dei pesci, dei coralli e delle foreste di alghe.
Detto questo, la fanciulla corse via, scomparendo tra gli alberi
.

Il principe la cercò a lungo, ma non la trovò. Infine, si diresse alla capitale del regno, dove scoprì che la notizia della morte del mostro era stata già portata: la città era in festa, e i banditori annunciavano a tutti che il Re cercava il coraggioso uccisore del drago, per dargli in dono la metà del suo regno e la mano della sua unica figlia. Il principe sorrise amaramente: non era avaro, aveva già un regno che gli spettava di diritto; inoltre, non voleva sposare la figlia del re, poiché era innamorato della fanciulla che aveva salvato.
Ma, non sapendo dove cercarla, decise di stabilirsi in città, e, saputo che il sarto del re cercava un apprendista, si presentò alla sua bottega e si fece assumere.

Dopo qualche tempo, il Re chiamò il sarto con urgenza al palazzo, e si rivolse a lui con apprensione:
– Oh, mio buon sarto! Mia figlia deve sposare il figlio del mio primo ministro, ma si rifiuta di farlo! Dice che accetterà solo se le verranno consegnati tre abiti: uno con la luna, il sole e le stelle del cielo; uno con tutta la bellezza della terra, i fiori, le foglie; e per ultimo, uno con tutti i pesci e le meraviglie del mare!
Me li dovete assolutamente procurare! Non fallite, mio buon sarto!
Il sarto tornò alla sua bottega, sconsolato. Non poteva in nessun modo assicurare i tre abiti al Re, e non poteva sopportare il disonore! E se il Re lo avesse condannato a morte?
Vedendolo così sconvolto, il suo apprendista si fece raccontare cosa lo turbasse, e non perse un minuto:

– Non preoccupatevi, caro padrone. Si dà il caso che io sappia dove procurare proprio tre abiti simili. Entro domattina li avrete!
E così fu. Il principe, la notte stessa, ruppe le tre noci, e presentò i tre abiti al sarto, l’indomani mattina. Felice oltre ogni dire, il sarto lo pregò di recarsi con lui a palazzo, insistendo che fosse proprio lui a presentarli al Re.
Questi, sbalordito, mandò a chiamare la figlia affinché ammirasse i tre abiti. Quando quella arrivò, meraviglia! Era la fanciulla che il principe cercava da tanto tempo, che gli rivolse il suo sorriso più radioso.
Rivolgendosi al padre, gli raccontò la storia del proprio salvataggio, aggiungendo:

– Non sposerò altri che lui, che mi ha salvato, e a cui ho donato i tre abiti. Sapevo che solo lui avrebbe potuto portarmeli, e così l’avrei ritrovato.

Il Re, che voleva la felicità della figlia più di ogni altra cosa, acconsentì al matrimonio, e immaginate la sua gioia nello scoprire che il semplice apprendista non era altri che il principe di un regno lontano! I due giovani si sposarono di lì a poco, il sarto ebbe buona fortuna con i suoi affari, e nessun mostro disturbò più la pace nel regno.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Fiabe arabe”]

Secondo suggerimento: Il buon principe di questa storia scopre, grazie al suo mettersi al servizio di una causa più grande, la possibilità di essere utile a qualcun altro (il Re e il sarto, e in qualche modo anche se stesso e la principessa) dopo aver imparato o ottenuto una conoscenza (il contenuto delle tre noci) che all’inizio sembra poco utile ai suoi scopi, o a quelli degli altri. È salvando il sarto che troverà il suo amore perduto.
Affidiamoci di nuovo al foglio bianco: iniziate scrivendo in cima questa frase: “Ciò che ho può essere utile a…“.
Provate a rispondere liberamente, usando ciò che avete scritto ieri come traccia. Ciò che avete può essere utile a scopi che probabilmente ad un primo sguardo non immaginereste.


Venerdì 4 marzo – I tre ladri

C’era una volta
un contadino che viaggiava verso Baghdad, a cavallo di un asino, per vendere una capretta al mercato. Avendo paura che gli rubassero la capretta, aveva appeso un campanello alla corda con cui l’animale era legato, così da sentire sempre dove si trovasse dietro di lui.


Tre ladri li videro per la strada.
Il primo annunciò: – Ruberò quella capra.
Il secondo disse: – Io gli ruberò l’asino!
Il terzo: – Mi accontenterò di prendergli gli abiti!

Il primo ladro, attento a non farsi vedere dal contadino, sbucò nella strada, tolse la corda dal collo della capra e la legò alla coda dell’asino, così che il campanello continuò a suonare, e si portò via la capra.
Il contadino, intanto, continuava a canticchiare beatamente ignaro e rassicurato dal suono del campanello. Immaginate come ci rimase male quando si voltò per caso, e scoprì che erano rimasti solo lui e l’asino!
Iniziò a guardarsi intorno, cercando di scoprire se il ladro fosse ancora nei paraggi.

Fu in quel momento che il secondo ladro si fece vedere:
– Cerchi qualcosa, mio buon uomo?
– La mia capra -, ansimò il contadino, – me l’hanno rubata!
– Strano davvero. Proprio cinque minuti fa ho incontrato un uomo che correva da quella parte, portandosi in braccio una capretta.
Il contadino, senza pensarci, scese dall’asino e lo affidò al ladro, correndo nella direzione indicatagli, che ovviamente era quella sbagliata! Altrettanto ovviamente, il secondo ladro non attese altro tempo, e si portò via anche l’asino.
Quando il contadino, stanco e a mani vuote, tornò indietro, non trovando neanche l’asino si disperò, e scoppiò in lacrime. Poi, ripresosi, non avendo più nulla da fare in città, decise di tornare a casa, a piedi.

Giunto presso un pozzo, notò un uomo che piangeva, e gli si avvicinò per aiutarlo.
– Cosa accade, mio buon amico?
– Che disgrazia! Che sventura! – urlò l’uomo. – Poco fa, per prendere l’acqua da bere, mi è caduta una borsa piena di pietre preziose nel pozzo, e ora ho paura di calarmi laggiù e annegare! Tu mi puoi aiutare! Se recupererai la borsa per me, ti darò dieci monete d’oro.
Dieci monete d’oro! Finalmente la giornata volgeva a suo favore, pensò il contadino, che era un buon nuotatore, e non aveva paura del pozzo. In un baleno, si spogliò e si calò nell’acqua.
Come potete immaginare, l’uomo, che non era altri che il terzo ladro, se la svignò con i suoi abiti, e il contadino rimase a bocca asciutta, ma completamente fradicio.

Quel giorno, imparò i pericoli della fiducia mal riposta, e delle sventure che la paura di perdere ciò che si ha può portare al più mite degli uomini.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Leggende persiane e del Medio Oriente”]

Terzo suggerimento: Questa sera scopriamo una dimensione apparentemente opposta a quella della seconda storia, ovvero quella che ci mette a contatto con il fallimento, con la frustrazione, o con la dispersione delle nostre energie in obiettivi sterili.
Per paura di perdere la propria capra, il contadino viene “agganciato” dai tre ladri e completamente derubato: quante volte nella vita ci siamo ritrovati in una situazione simile?
Provate a rispondere a queste due domande: “La mia paura è…” e “I miei ladri sono…“.
Spesso, li ritroviamo in dimensioni insospettabili della nostra vita. Accorgercene può cambiare radicalmente la gestione delle nostre energie.


Sabato 5 marzo – I tre doni

C’era una volta
Masur, l’uomo della Selva Azzurra, che uscì dal suo palazzo e si recò in cerca di una compagna, ma non una qualunque: una donna bella, intelligente e buona, con cui dividere la vita. Per lei portava tre regali: una veste di damasco bianco guarnita di perle, un diadema di brillanti sfavillante come il sole, e una mandorla bruna e dorata.


Nel suo cammino raggiunse il fiume, dove trovò una donna straordinariamente bella: accovacciandosi al suo fianco, le chiese il suo nome.
La giovane, per tutta risposta, scoppiò a ridere, e continuando a ridere pronunciò il suo nome:

– Madina.
La ragazza non smetteva di ridere, e per quante domande le facesse, Masur non ebbe risposte sensate.
“Questa splendida ragazza non ha un briciolo di sale in zucca”, pensò tra sé, ma volle onorare la bellezza di lei, e le regalò il vestito bianco. Poi, senza perdersi d’animo, riprese il cammino.


In un villaggio, giunse a una piazzetta in cui una donna stava parlando al pubblico. Ascoltandone le parole, vi scoprì intessute arguzia e straordinaria intelligenza, che seppero commuoverlo e divertirlo.
Chiese a un passante il nome della ragazza, e gli venne risposto:

– Si chiama Dinar.
Allora, facendosi vedere tra la folla, Masur urlò:
– Dinar, Dinar! Vieni nel mio palazzo, ti prego. Mia madre è sempre triste, e le tue parole riuscirebbero a confortarla.
– Di’ a tua madre -, rispose Dinar, fredda e altera, – che se vuole udirle, dovrà venire qui. Deve affaticarsi chi chiede, non chi dà.
– Ma mia madre -, rispose l’uomo, – è inferma.
– Se è inferma, rinuncerà alla gioia di ascoltarmi -, rispose lei.
“Questa ragazza è fredda e arida”, pensò lui. “Intelligentissima, certo, ma il suo cuore è spento”.
Così, decise di onorare la chiarezza della sua intelligenza, e le donò il diadema. Poi, ripartì.


Un poco sconsolato, continuò a viaggiare, chiedendosi dove poter trovare una donna bella come Madina e scaltra come Dinar. A fianco di una strada, incontrò una giovane donna, non molto bella in verità, ma dignitosa.
Si chiamava Corcia. Le chiese come si svolgesse la sua vita, e lei rispose:

– Dedico il tempo libero dal lavoro per aiutare una vecchietta povera e inferma, che abita qui vicino. Divido con lei i frutti selvatici che raccolgo nel bosco, e i pochi soldi che guadagno come filatrice.
– Sei buona -, commentò lui.
– Lo farebbero tutti -, si schermì lei.
Lui, ammirato e commosso, volle regalarle la mandorla che portava con sé.

– È un regalo umile, ma non ho altro.
– È un grande regalo, perché è fatto con il cuore -, rispose lei.

Masur riprese il cammino, pur conservando il ricordo della ragazza nel cuore. Lei andò dalla vecchietta, e le portò la mandorla. Appena la aprirono, invece che il frutto trovarono un mucchio di splendide gemme.
– È una ricchezza incalcolabile! -, esclamò la vecchietta.
Corcia, prese le gemme uscite dalla mandorla magica, le spese per costruire una casa alla vecchietta e per curarsi di lei con cibo e medicine, e aiutò molti altri poveri e infermi, senza badare a sé.

Un giorno, non molto tempo dopo, Masur fece ritorno, stanco per il lungo viaggio, ma con un sorriso sereno sul volto.
Cercavo la ragazza perfetta, che non esiste. Tu sei buona, e la bontà illumina chiunque di luce divina, molto più alta della bellezza fisica. E la bontà che sa accostarsi alla sofferenza altrui rende intelligenti più di qualsiasi conoscenza. Ti ho offerto la mandorla, il regalo più ricco di tutti. Ora ti offro il mio cuore, che è il regalo più grande.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Fiabe e leggende arabe”]

Quarto suggerimento: Masur si rende conto durante il suo viaggio di essersi fatto guidare dalle sue aspettative, da un desiderio irrealizzabile. Deve, però, affrontare un lungo viaggio e raccogliere esperienze nuove, prima di rendersi conto che il suo desiderio nasconde un bisogno più profondo, quello di raggiungere il senso profondo dell’amore.
Lo spunto riflessivo di questa sera è una domanda: “Quale desiderio insoddisfatto mi ha fatto scoprire un bisogno?“.


Domenica 6 marzo – Il ritratto

C’era una volta
un potente re che brillava per saggezza e santità. Venne a sapere della grandezza delle imprese e delle meraviglie compiute da Mosè, e decise di voler conoscere il famoso profeta. Ma, poiché il trono del Re è una prigione senza sbarre, e colui che lo voglia onorare non può allontanarsene se non per gravi motivi, il Re non poteva recarsi di persona da lui. Allora, chiamò il suo fido artista di corte, famoso e brillante.

– Parti subito -, gli disse, e chiedi al grande Mosè di farti l’onore di ritrarlo per me, affinché attraverso la tua opera io possa ammirare le sue fattezze e le sue qualità. Bada a ritrarle con accuratezza!

Il pittore partì, e dopo un lungo viaggio raggiunse la corte di Mosè, che acconsentì a farsi ritrarre. Un po’ per il grave compito affidatogli dal suo sovrano, un po’ per la fama e la grandezza del personaggio che avrebbe ritratto, e un po’ perché ci teneva a dipingere un capolavoro, l’artista impiegò lunghi mesi per terminare il suo lavoro. Il risultato fu tanto somigliante, ma tanto magnifico, da valere i complimenti e i doni dello stesso Mosè. Fiero del suo lavoro, dopo una lunga assenza, l’artista si rimise in viaggio e portò il quadro al suo Re.

Il sovrano, radunati i saggi e gli indovini del regno, mostrò loro il quadro, chiedendo loro di descrivergli il carattere dell’uomo che vedevano, e il suo temperamento.
I saggi e gli indovini guardarono con attenzione, si consultarono, e infine dissero:
– Questo è un uomo malvagio, crudele, violento e incline ai vizi peggiori.
Nella sala del trono scese il silenzio: il Re non volle crederci. Minacciò i saggi di severe punizioni, ma essi non cambiarono idea, sostenendo che se qualcuno aveva fatto un errore, quello era di certo l’artista. Interrogato e minacciato a sua volta, lui si difese:
– Mio signore, il mio ritratto è veritiero, tanto da valere i complimenti e i doni dello stesso Mosè. Recati tu stesso dal Profeta, e domandaglielo. Se non ti riterrai soddisfatto, potrai uccidermi.


Il Re acconsentì, e, poiché la questione era di grande importanza, si mise in viaggio lui stesso, raggiungendo in breve tempo la corte di Mosè. Prostrandosi davanti a lui, gli raccontò del giudizio dei suoi saggi, chiedendogli perdono.
– Ti prometto, signore, che verranno puniti severamente!
– Puniti? -, chiese Mosè, – E perché mai? Ti hanno detto la verità, e ti invidio per la loro saggezza.
Il Re era turbato e sorpreso, e cominciò a balbettare insensatamente. Mosè rise sonoramente, e si spiegò:
– Mio caro amico, io possiedo tutti i difetti che i tuoi saggi ti hanno elencato: sono malvagio, crudele, bugiardo, falso, iracondo, violento come e più di tutti gli altri uomini. Ma, dopo molti sforzi e sacrifici, ho imparato a domare questi difetti e a trasformarli con pazienza in tante virtù. Ho mutato la malvagità in bontà, la crudeltà in giustizia, la falsità in verità, l’ira in serenità, la violenza in forza. E così, sono diventato l’uomo che tutti rispettano, e che Dio ha saputo guidare. Così ogni uomo può trasformare i suoi vizi in virtù, generando grande pace e soddisfazione dentro e fuori di sé, più di quelle che si prova nella conquista di beni, terre e vittorie.


Il Re, colpito dal profondo insegnamento di Mosè, si rimise in viaggio, meditando a lungo. Quando arrivò a casa, perdonò i saggi, ricoprì di doni l’artista, e seguì il consiglio del Profeta, diventando ben presto un saggio e illuminato sovrano, ricordato per anni e anni a venire.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Leggende persiane e del Medio Oriente”]

Quinto suggerimento: Il Re, all’inizio di questa storia, vede solo la magnificenza di Mosè, senza conoscere come sia stata realizzata. Crede che l’uomo che ammira sia senza difetti, e che sia solo buono e santo.
L’artista e i saggi, che hanno occhi simili nella loro diversità, l’uno per la bellezza e gli altri per la verità, non si lasciano ingannare, e vedono chiaramente che Mosè possiede lati oscuri, e lavora instancabilmente per mutarli in virtù.
Così dovremmo fare anche noi, perciò questa sera tracciate di nuovo una linea nel mezzo del foglio bianco, e scrivete nella colonna di sinistra tutti quelli che ritenete essere i vostri difetti (siate onesti!). Poi, prendetevi del tempo per riflettere in profondità: provate a riconoscere quali virtù possono diventare. Non è detto che le individuiate subito: rivisitate spesso questa lista, poiché può trasformarsi in un utilissimo strumento di auto-valutazione (anche giornaliera!).


Lunedì 7 marzo – Il cantore

C’era una volta
un re di Persia, che non viveva che per la felicità del suo popolo. Aveva fatto irrigare i campi, bonificato le paludi, costruire case per i poveri, abbassato al mimino tutte le tasse, dato cibo e conforto a ognuno dei suoi sudditi. Un giorno, volle sapere se ad essi mancasse qualcos’altro, e inviò per il regno molti messaggeri, per raccogliere notizie.

Dopo un anno, i messaggeri tornarono con la stessa risposta: il popolo era felice, e desiderava soltanto che i cantori girovaghi che visitavano le corti si fermassero di tanto in tanto anche presso le loro umili case, per poter godere della bellezza dei loro canti.
Il Re, di cuore, volle soddisfare i suoi sudditi, e così mandò a chiamare tutti i cantori girovaghi, e comandò loro di fermarsi nelle case dei contadini, dei pastori, dei pescatori e dei marinai, così che ognuno potesse godere della musica.
– Regalerò ad ognuno di voi -, disse, – una borsa di monete d’oro, una giovenca e un asino. E a chi tra un anno si sarà distinto in questo compito, darò un premio ancora più grande!
Ridendo, li fece uscire, battendo le mani per la gioia.

Un gruppo di essi decise di visitare i contadini del regno: si presentavano la mattina presto alle loro case, e li accompagnavano suonando e cantando al lavoro, seguendoli fino a sera, suonando anche nel momento in cui essi si distendevano per dormire. Per un certo periodo i contadini si divertirono, poi iniziarono a sentirsi un poco annoiati, fino a vivere la costante compagnia dei cantori come una vera e propria persecuzione.
Un giorno, al colmo della disperazione per avere sempre nelle orecchie il suono della loro voce e delle stesse canzoni, li rincorsero con le falci e i forconi, e li scacciarono.

Un secondo gruppo di cantori volle dedicarsi ai pastori, ai quali decisero però di cantare canzoni allegre, aneddoti spiritosi e ballate comiche. All’inizio, anche i pastori furono contenti di quel piacevole diversivo, ma poi si resero conto di non poter più godere del calmo scorrere delle acque di montagna, del suono del vento tra le valli, e del silenzio dell’alta montagna, perché tutti questi suoni venivano coperti dalle voci chiassose dei cantori. Quando non ne poterono più, gli lanciarono i cani all’inseguimento, e li dispersero giù nelle valli.

Un terzo gruppo di cantori si diresse verso il mare, volendo occuparsi dei pescatori e dei marinai, e prese a seguirli in mare cantando lente e nostalgiche ballate che parlavano di eroi, amori cortesi e dolci dame. Si sa, la gente di mare è energica e, sebbene sappia essere riflessiva, ama l’allegria: dopo un breve periodo di interesse, arrivarono ad essere così annoiati da minacciare i cantori di scaraventarli in acqua con gli strumenti, se non se ne fossero andati. E così fecero.

Tra tutti i cantori, c’era un giovane gentile e di bell’aspetto, che si chiamava Olam: egli amava la propria arte più della vita, e non voleva essere grossolano come i suoi colleghi.
Da subito, se ne andò per il regno da solo, e si recò dai pastori, che lo invitarono a cantare, e lui cantò dolci poesie sulla luna che brilla nel cielo di montagna, inni alle valli e ai torrenti, e serenate delicate alle dolci ragazze che mungevano cantando. Li rese felici, e quando annunciò di dover partire, lo ricoprirono di doni e piansero lacrime sincere.
Di lì si recò dai contadini, ai quali, solo dietro loro richiesta, cantò le lodi del profumo della terra lavorata in primavera, dell’oro dei campi e del sole d’estate, dei frutti dell’autunno e della pace dell’inverno. Ed essi furono pieni di gioia, e piansero a loro volta quando partì.
Per ultimi, Olam volle visitare i marinai, ai quali cantò canzoni allegre e avventurose, che parlavano di paesi lontani e di lunghi viaggi sul mare azzurro e profondo, compagno di mille peripezie. Ed essi, entusiasti, lo ricoprivano di lodi.

Così, allo scadere dell’anno stabilito, i cantori fecero ritorno a palazzo tristi, affamati e malridotti, mentre solo Olam era felice, ben nutrito e vestito, e carico di doni. Il Re, allora, lo pregò di cantargli un canto dei pastori, ma lui rifiutò.
– Sire, quei canti appartengono alle montagne, e alla loro gente. Qui, canterò la gloria dei tuoi antenati e della tua casata, se me lo permetterai.
Il Re sorrise, ascoltando il suo canto che rievocava le gesta dei suoi antenati, e seppe di aver trovato il più saggio e capace cantore del regno. Lo volle accanto a sé, facendone il bardo reale. Gli permise, però, di aggirarsi libero tra la gente del regno, affinché la sua arte fosse patrimonio di tutti.
E così il regno prosperò per molti anni.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Leggende persiane e del Medio Oriente”]

Sesto suggerimento: in questa storia, i cantori non sono incompetenti, ma semplicemente sbagliano contesto e tempismo. Olam, invece, considera il giusto tempo e il giusto luogo per la giusta musica, e viene premiato per questo.
Molto spesso, dimentichiamo di riconoscere i nostri talenti perché non li applichiamo nei momenti giusti, o nei giusti contesti. Come una pianta, essi crescono solo nel giusto terreno, innaffiati nel giusto modo. Questa sera chiedetevi: “So alimentare i miei talenti nel giusto tempo, e nel giusto ambiente?“.



SECONDA SEZIONE: SFIDE, OSTACOLI E INSEGNAMENTI

Martedì 8 marzo – L’aquila e la balena

C’era una volta
una coppia di care amiche, che camminava su una spiaggia della Groenlandia. Le due fanciulle erano diversissime, come il sole e la luna: l’una, aveva i capelli d’oro e gli occhi azzurri come il cielo, e l’altra aveva gli occhi scuri, del colore del mare in burrasca, e i capelli d’un nero profondo come la notte. Le fanciulle cantavano felici sulla sabbia, intrecciando melodie dolci e delicate con le loro voci.

Dal fondo del mare, una balena le sentì cantare, e volle avvicinarsi alla spiaggia per vedere la fonte di quei suoni così affascinanti. Emergendo dall’acqua come una grande montagna grigia, enorme e spruzzante, vide la fanciulla dai capelli scuri; se ne innamorò, e decise di portarla con sé sul fondo del mare.
Anche un’aquila, dal suo nido tra le alte montagne, aveva udito il canto, e planando sulla spiaggia vide le due amiche, e si innamorò della fanciulla bionda, decidendo di portarla con sé oltre le nuvole.
I due animali giganteschi si lanciarono quasi contemporaneamente sulle due ragazze, separandole, e portandole una nelle profondità degli abissi e una nelle terre del cielo.

Passarono i giorni, e la ragazza bionda, prigioniera del nido della grande aquila, poteva solo guardare giù dall’immensa rupe nascosta tra le nuvole, per escogitare un modo di scappare. L’aquila le portava ogni giorno uccelli e prede da mangiare, e lei li accettava per mantenersi in forze, ma conservava i loro tendini, nascondendoli tra i rami. Quando ne ebbe un numero sufficiente, li intrecciò insieme con pazienza, finché un giorno poté calare la corda giù dal nido, e scendere passo dopo passo la grande montagna, giungendo in vista del villaggio sulla spiaggia.

Intanto, la giovane bruna stava sul fondo dell’oceano, sperando che qualcuno la venisse a salvare. La balena non era sempre con lei, e un giorno in cui essa si era allontanata, la ragazza cominciò a cantare un lungo e malinconico lamento. I fratelli di lei, che erano pescatori, udirono la sua voce venire dal mare, e la riconobbero: veloci, calarono una corda lunga e robusta, e la giovane vi si arrampicò veloce, tornando con loro verso la riva.


Le due fanciulle si ritrovarono quasi contemporaneamente sulla spiaggia da cui erano state rapite, così come contemporaneamente la balena e l’aquila scoprirono contemporaneamente la loro assenza dalle loro case. Quando però si precipitarono a riprenderle, giunte alla vista della spiaggia, meraviglia! La balena si trasformò in un osso lucido e bianco, che rotolò fino alla spiaggia; l’aquila, invece, divenne una lucida pietra dorata, che finì con un tonfo sulla sabbia. Le due ragazze raccolsero la rispettiva pietra, e la tennero con sé, come talismano: da quel giorno, al suono del loro canto, sia il mare che il cielo benedirono la vita del villaggio, rendendola pacifica e serena.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Leggende scandinave”]

Settimo suggerimento: Le due protagoniste della storia sono profondamente collegate tra loro, e vengono separate da una difficoltà temporanea, che le allontana tra loro in modo apparentemente definitivo. L’una viene portata nelle profondità del mare, dove si muovono correnti sconosciute e violente, come quando ci perdiamo nelle correnti del mondo delle emozioni. L’altra viene esclusa dal mondo, e portata nei luoghi più alti, isolata come quando ci isoliamo nella solitudine dei nostri pensieri, soprattutto se ossessivi.
Come le giovani donne, possiamo essere davvero interi e benedetti solo quando torniamo dalle altezze e dalle profondità negli spazi del nostro Cuore.
Vi proponiamo una canzone da ascoltare per questo motivo: “Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi” di Lucio Battisti (la trovate qui). Provate a rispondere a questa domanda: “Dove sono più stabile, oltre le mie altezze e profondità?


Mercoledì 9 marzo – Il ragno e il tessitore

C’era una volta
un giovane di nome Nin-Lu, figlio del vecchio tessitore, che alla morte del padre ereditò il telaio.
Era giovane, e inesperto, ma si mise di gran lena al lavoro: non essendo versato nell’arte come suo padre, il telaio gli si ribellava come un cavallo imbizzarrito: la spola correva incerta tra i fili, inceppandosi spesso, e i fili si davano battaglia, invece che scorrere e intrecciarsi con ordine al suo passaggio.


Un giorno, mentre si affannava a mettere in ordine un indisciplinato reggimento di fili colorati, il povero Nin-Lu udì una vocina invisibile ridere di gusto. Si guardò intorno, meravigliato.
– Perdonami -, disse la vocina, – ma i tuoi stranissimi pasticci mi divertono un mondo.
Lo vide: era un ragno, appeso alla sua ragnatela sulla parete, che si librava sulla sua testa con il divertimento negli occhi neri.
– Ammetterai, ragazzo -, riprese l’aracnide, – che in fatto di abilità tessili sono molto più bravo di te!
Nin-lu si strinse nelle spalle.
– Non nego la tua bravura. Ma, se gli Dei mi aiutano, riuscirò anch’io a diventare bravo come te.
– Tu studi, ti tormenti, ti affanni, e oltre a farmi ridere, mi fai un po’ pietà. Io tesso con la minima fatica, e, devi ammetterlo, con pochissimi errori. Gli Dei mi hanno fatto così, io sono nato per questo.
– Gli Dei amano tutte le creature -, rispose Nin-Lu, – Ma gli esseri umani devono meritarsi ogni conquista con fatica e duro lavoro, poiché possono apprendere molte arti.

Il ragno rise, ma da quel giorno stette molto attento ai progressi di Nin-Lu, facendo capolino ogni tanto per commentare e – senza farsi notare – dare qualche buon consiglio di tessitore.
Così, a poco a poco, ricordando gli insegnamenti del padre, seguendo i consigli malcelati del ragno e affidandosi alla propria ispirazione, Nin-Lu divenne bravo, riuscendo a vendere il suo primo tessuto a un buon prezzo. Continuò a studiare, e divenne eccellente: iniziarono a pervenirgli richieste da città lontane, e la sua ricchezza aumentò con la sua abilità. Continuò, e divenne il miglior tessitore che sia mai vissuto: non tesseva più stoffe, ma sogni fatti di bellezza e poesia, d’oro e d’argento. Tesseva le ombre della sera e catturava i raggi del sole nelle sue stoffe, e cieli stellati e giardini in fiore.
Da tutto il mondo venivano nella sua bottega, e i mercanti pagavano cifre enormi per accaparrarsi un suo pezzo d’arte.


Il ragno, che aveva guardato tutta la sua evoluzione passando dalla risata di scherno al sorriso d’orgoglio, divenne vecchio e anziano. Smise di filare, e un giorno, cadde su un tappeto che stava ammirando un mercante, e sussurrò:
– Sì, tu sei il tessitore prediletto dagli Dei. Addio, mio buon amico.
E detto questo, spirò. Il mercante, spaventato, cercò di scacciarlo dal tappeto, ma Nin-Lu lo raccolse, e lo portò sull’erba del giardino, dove lo seppellì con tutti gli onori dedicati a un maestro.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Leggende dell’Estremo Oriente”]

Ottavo suggerimento: questo racconto, proveniente dalla Cina, ha il sapore del lento apprendimento necessario ad imparare accortamente un’arte, soprattutto se manuale.
La lunga ripetizione di gesti precisi e sapienti, la pazienza di renderli sempre più morbidi, la concentrazione necessaria a trasformare la fatica in flusso, sono i giusti ingredienti per costruire l’eccellenza.
Nin-Lu è l’esempio di come possiamo diventare quando accediamo alla costanza e alla pazienza. Anche per questa sera, vi proponiamo una canzone su cui riflettere: “Costruire” di Niccolò Fabi (la trovate qui). Ora prendete carta e penna, e scrivete: “Costruire è…“. Continuate a piacere, secondo ciò che vi ispira di più.


Giovedì 10 marzo – La casa sul lago

C’era una volta
su un lago della Scozia, Loch Hourn, un numeroso gruppo di pescatori che si recava sul lago in estate, per la grande abbondanza di aringhe. Venivano da tutto il Paese, perché c’era pesce per tutti, e la possibilità di guadagnare buone somme per le provviste dell’inverno.

Un padre e un figlio, venendo da lontano e possedendo una barca troppo piccola per dormirci sopra, avevano stipulato un accordo con una vedova del posto, nella cui casa alloggiavano per l’intera stagione. La vedova aveva una figlia, che di anno in anno si innamorò del giovane pescatore. Lui, però, era innamorato di una ragazza del suo villaggio lontano, e non dava segno di ricambiare le attenzioni della ragazza, per quanto rimanesse molto gentile e affezionato.


Alla fine di una stagione piuttosto pescosa, felici del risultato ottenuto con il duro lavoro, padre e figlio si misero in viaggio per tornare a casa, ma un vento impetuoso li ricacciò a riva. Decisero di riprovare il giorno dopo, e di nuovo si ripeté lo stesso episodio. Così per vari giorni di seguito, fino a che il vecchio marinaio si convinse che quel vento non era naturale.
“Qui c’è di mezzo l’opera della magia! E, che mi venga un colpo, quella cara donna vuole che mio figlio rimanga qui per sposare sua figlia!”
Ma anche l’uomo aveva voglia di riabbracciare la moglie, e in segreto cercò qualcuno che potesse aiutarlo con un controincantesimo: chiedendo di qua e di là, gli venne indicata un’anziana donna che abitava fuori dai confini del villaggio, esperta in erbe e sortilegi.
Quando le fece visita e le spiegò ciò che accadeva, la donna acconsentì ad aiutarlo, e gli consegnò un pezzo di corda da barca, con tre nodi ben stretti.
– Domani prendi il largo con quella corda a bordo. Non sciogliere i nodi, qualsiasi cosa succeda, e tornerai a casa con il vento a favore.


L’uomo tornò alla casa della vedova, prese suo figlio e i bagagli, e si mise di nuovo in viaggio, stringendo la corda tra le mani. Dopo qualche tempo, visto che il vento non accennava a salire, gli venne la curiosità di testare i poteri della corda, e ne sciolse un nodo. Non accadde nulla: la barca continuava a filare sull’acqua, diretta al capo opposto del grande lago. Ridacchiando tra sé come un bambino, l’uomo disfece anche il secondo nodo, curioso. Nemmeno questa volta successe nulla: l’uomo allora, sicuro che la corda fosse solo un pretesto per tranquillizzarlo, e che la donna avesse semplicemente previsto un giorno senza vento, sciolse l’ultimo nodo e gettò la corda in acqua.
Ecco che all’improvviso si alzò un vento impetuoso e indomabile, e risospinse la barca alla riva da cui erano partiti, con un gran sbattere di vele e di sartiame.

Pieno di vergogna, l’indomani l’uomo si recò dalla vecchia saggia, e le raccontò la storia.
La donna rise, e gli disse:
– E tu credevi che fosse un trucco, non è vero? Che ti avessi imbrogliato! E così hai voluto provarlo, come un bambino!
L’uomo annuì, arrossendo.
– Beh, poco male -, disse la donna, – te ne darò un’altra. Questa volta, però, bada di darmi retta: in quei nodi sono imprigionati i venti dell’incantesimo che ti teneva qui. Scioglili solo quando sarai arrivato sano e salvo sulla tua riva!


E così fece: il giorno seguente, padre e figlio si rimisero in viaggio, senza toccare nessuno dei tre nodi della nuova corda, e arrivarono veloci alle rive di casa. Quando ebbero messo in secca la barca, l’uomo fece come gli era stato detto.
Appena sciolse l’ultimo nodo e buttò la corda in acqua, un vento ancora più forte di quello del giorno precedente si alzò, ululando e sbattendo tra una parete e l’altra del lago e volò veloce fino alla casa della vedova, che seppe che il suo incantesimo non era andato a buon fine.

[Riadattato da “Fiabe celtiche – Gnomi, folletti, fate: storie del Piccolo Popolo” – Titolo originale “La casa della vedova sul Loch Hourn”]

Nono suggerimento: in questa storia, la difficoltà dei due pescatori (le attenzioni troppo stringenti della vedova e di sua figlia) viene scongiurata da un buon consiglio (quello dell’anziana strega), che però deve essere compreso prima di essere efficace. Il vecchio pescatore, la prima volta, non viene reso partecipe del processo di risoluzione, e cambia le condizioni a suo piacimento, seguendo una curiosità bambinesca. La seconda volta, quando gli viene spiegato il funzionamento della corda, si rende conto della necessità di rispettare le istruzioni alla lettera.
Vi è mai accaduto di ricevere un consiglio, ma di comprenderlo solo dopo molto tempo? Provate a continuare questo suggerimento: “Quella volta in cui avrei dovuto seguire il consiglio…“.


Venerdì 11 marzo – L’oro e il serpente

C’era una volta
il Buddha in persona, che camminava in grazia, godendo del calore del sole di un’estate piuttosto torrida. Mentre guardava con gioia tutto ciò che lo circondava, nonostante il clima secco e i campi riarsi, un uomo vestito di stracci, che si aggirava nel campo alla ricerca di qualche chicco di grano, lo vide avvicinarsi e lo riconobbe.
– O signore celeste -, gli disse con un profondo inchino, – ti prego di aiutarmi. Sono povero, e la mia famiglia è in miseria. Io e mia moglie litighiamo spesso, e i miei figli hanno fame.

Il Buddha gli sorrise.
– Seguimi: se saprai accogliere i miei doni come la terra accoglie il seme, troverai pace e serenità.
L’uomo, speranzoso, lo seguì, finché si fermò in un prato ricoperto di fiori, indicando un punto con la mano.
– Ecco, qui c’è tutto l’oro che ti serve.
L’uomo, felice, scavò, fino a mettere in luce una sorgente d’acqua zampillante, fresca e pulita.
– Ma qui non c’è oro! C’è solo dell’acqua… -, si lamentò il contadino.

Il Buddha continuava a sorridere, ma i suoi occhi diedero un bagliore.
– Seguimi -, ripeté, e si rimise in marcia.
L’uomo lo seguì, fino a che Egli si fermò davanti a un cespuglio di rovi, indicandolo.
– Ecco, qui c’è tutto l’oro che ti serve.
Il contadino, meno speranzoso di prima, si immerse nei rovi e, dopo molti graffi e dolori, ne uscì con tre spighe di grano, bionde e colme di chicchi.
– Sono solo spighe di grano… -, disse l’uomo, ormai evidentemente a disagio.

Il Buddha, per la terza volta, si limitò a sorridere.
Seguimi -, ripeté.
Di nuovo camminarono, e di nuovo si fermarono, questa volta in un campo, incolto ma dalla buona terra, in cui scorreva l’acqua della sorgente che avevano scoperto prima, ormai trasformata in fiumicello.
– Ecco, qui c’è tutto l’oro che ti serve -, risuonò di nuovo la frase.
L’uomo, ormai infelice e forse più misero di prima, guardò l’acqua, il grano e il campo senza capire.

Allora il sorriso del Buddha non scomparve, ma i suoi occhi si velarono un poco.
– Seguimi.
Lo portò in uno spiazzo sabbioso, e gli indicò per terra:
– Bada, qui c’è un serpente velenoso e pericoloso.
“Di certo vuole confondermi”, pensò il contadino. “Prima mi promette l’oro, e l’oro non c’è… Ora mi promette un serpente, e sicuramente il serpente non ci sarà!”.
Cominciò a scavare, fino a scoprire un grande cofano di lucido argento, brillante sotto il sole rovente. Si guardò intorno: il Buddha era sparito. Aprì il coperchio, e scoprì una grande riserva di oro e pietre preziose. Abbagliato, ne raccolse quanto poteva e corse a casa, dove mostrò alla moglie e ai figli quanto aveva scoperto. Nascosero l’oro e le gemme, e si precipitarono al luogo del ritrovamento, organizzando turni di guardia e viaggi avanti e indietro dalla capanna per raccogliere il tesoro, che sembrava inesauribile.

Presto, le guardie notarono il loro andirivieni, e avvertirono il Re, che decise di convocarli a palazzo.
– Tu volevi derubarmi -, disse all’uomo, seccamente. – Perciò, verrai giustiziato, e la tua famiglia messa in carcere! Non tollero ladri, nel mio regno!
L’uomo si inginocchiò, comprendendo solo allora ciò che aveva fatto, accecato dall’avidità e dal pregiudizio.
– O Signore celeste, perché ho rifiutato il tuo oro, e ho scelto il serpente? – esclamò.
Il Re, sorpreso, si fece raccontare l’intera storia, e si rese conto a sua volta della lezione che il Buddha aveva impartito a tutti loro. Avrebbe ucciso un uomo, accecato dalla stessa avidità?
Così, decise di graziarlo, rendendogli la libertà e donandogli la terra in cui era nata la sorgente benedetta, così che potesse coltivarla e rendere prospera la sua famiglia, e con essa il regno.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Fiabe dell’Estremo Oriente” – Titolo originale “Il serpente malefico”]

Decimo suggerimento: Per la seconda volta, ci troviamo di fronte a un consiglio non seguito, ma questa volta vediamo cosa succede a rifiutarlo costantemente, e non solo una sola volta. Spesso riceviamo indicazioni da amici, colleghi, o dalla vita stessa sotto forma di segni ed eventi, ma pur accorgendoci che qualcosa è lì per noi, ci fissiamo nell’aspettativa di ciò che vorremmo, come l’uomo che cerca a tutti i costi un tesoro, senza rendersi conto che il Buddha lo conduce all’occasione di rendersi indipendente e prospero. Spesso, questo errore nasce dal fatto che ci concentriamo su un desiderio, senza mettere in luce il bisogno che ad esso sottende.
Fate una lista dei vostri desideri – di qualunque genere essi siano – e cercate di individuare, per ognuno di essi, i bisogni che ad essi corrispondono. Potreste scoprire che apparentemente i due ambiti sono molto diversi.


Sabato 12 marzo – Il topolino e la montagna

C’era una volta
un topolino piccino piccino, che in compenso aveva di sé un’opinione grande grande. Era nato di notte, in una terra dove le notti sono lunghe mesi e mesi, su nel lontano Nord, in una capanna piccola e buia.

Un giorno, mentre dormiva, si svegliò, in preda alla sensazione che stesse succedendo qualcosa di strano. Si affacciò alla porta della capanna, e scorse all’orizzonte il colore del fuoco, che cresceva dal rosa, all’arancione, all’oro più luminoso. Senza sapere cosa fosse, vide che il fuoco si dirigeva sempre di più verso la capanna, e pensò ad un incendio. Allora, per non morire bruciato, si lanciò eroicamente fuori dalla capanna, e si scoprì illeso.
“Il fuoco non mi brucia!”, pensò, per un momento. “Sono invincibile, straordinario!”.

Ma, voltandosi, e vedendo la capanna inondata di luce e non di fiamme, capì che quello non era fuoco, ma la luce del sole. Era finalmente tornato il giorno, nelle terre del Nord.
Allora il topolino si vergognò, e si ripromise che avrebbe compiuto davvero un’impresa straordinaria.
Decise di scalare un monte altissimo, e scoprì invece che si trattava di una semplice collinetta di sabbia.
Poi nuotò a più non posso per attraversare un largo e profondo lago, ma si accorse che era solo una pozzanghera.
Abbatté un palo alto e sottile, che di certo sorreggeva l’intera volta celeste, solo per scoprire di aver rosicchiato un filo d’erba.
Infine, tra la disperazione e la testardaggine, decise di tentare un’impresa disperata: spostare una montagna.

Trovò una grande montagna in mezzo alla tundra, alta quanto molti alberi, e si mise al lavoro.
Granello dopo granello, sassolino dopo sassolino, pietra dopo pietra, il topolino scavò, graffiò, e rosicchiò, trasportando avanti e indietro, correndo indietro e avanti, per mesi e mesi. Infine, riuscì a far sorgere la montagna, tale e quale a prima, nel luogo prestabilito.
E, ammirando la sua opera, scoprì di non sentire più un briciolo dell’orgoglio di un tempo, ma di aver umilmente, con pazienza e fatica, compiuto la grande opera a cui era da sempre destinato.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Fiabe di Animali”]

Undicesimo suggerimento: quante volte, come il topolino, ci siamo trovati a fare i conti con le nostre aspettative (anche su noi stessi), messe a confronto con la realtà dell’impegno che ci veniva richiesto nelle sfide della vita? Il topolino impara da sé una cosa molto importante: c’è sempre un modo commisurato alle nostre forze di affrontare le sfide della vita, anche quelle apparentemente irrealizzabili. Questa sera, riflettete su questo suggerimento: “Quella volta in cui ho scoperto una forza segreta…


Domenica 13 marzo – L’albero di pere

C’era una volta
un contadino che vendeva le sue pere al mercato. Erano pere di ottima qualità, succose e nutrienti, e per la cura che aveva impiegato nella loro coltivazione il mercante richiedeva, giustamente, un prezzo alto. Passò di lì un vecchio monaco, vestito di una tunica logora, ma dall’aria dignitosa, e gli chiese una pera in elemosina. Ma il venditore si rifiutò a più riprese di cedergliela, e anche se il monaco chiedeva gentilmente, andò su tutte le furie.

– Perché tanta collera? -, chiese il monaco. – Tu hai qui molte centinaia di pere, che ti frutteranno un ottimo guadagno. Non ti rovineresti di certo offrendone una in elemosina.
Il contadino, per tutta risposta, iniziò ad insultarlo e a bestemmiare. Indignata, una guardia del mercato decise di intervenire: diede una moneta all’uomo, prese la pera che le spettava, e la donò al monaco. Questi accettò con un sorriso, poi si rivolse a tutti quelli che stavano osservando la scena:
– Io sono un monaco, e l’avarizia non alberga nel mio cuore. Io donerò le mie pere a tutti voi, senza pretendere un centesimo.
Tutti si stupirono, compreso il contadino. Se quell’uomo aveva delle pere, perché mai ne aveva chiesta una in elemosina?

Con un sorriso, egli tenne alta la pera ricevuta dalla guardia, e disse a tutti:
– Da questa pera, trarrò molte, centinaia di pere.
Detto questo, addentò il frutto, mangiandolo con gioia. Poi, fece un buco nel terreno, vi gettò i semi dentro, li ricoprì di terra, e si fece prestare un otre d’acqua per innaffiarli. All’istante, un germoglio fremente di vita spuntò dal suolo, crescendo a velocità vertiginosa: divenne ben presto un piccolo alberello, e crebbe in altezza mandando verso il cielo rami e foglie vigorosi. Ben presto, sotto gli occhi stupiti della gente, si inghirlandò di fiori bianchi e rosa, che, in men che non si dica, diventarono frutti ancora più belli e succosi della pera originaria.
Tutti sgranarono gli occhi e assistettero al miracolo a bocca spalancata. Quando la crescita miracolosa ebbe termine, il monaco sorrise e fece un ampio gesto con la mano:
– Ognuno ne prenda quante ne vuole. Ce ne sono per tutti.
La gente non si fece ripetere l’invito: tutti, uomini e donne, vecchi e bambini, riempirono le ceste, gli abiti, le mani e le bocche dei meravigliosi frutti, inneggiando alla generosità del vecchio santo.
Quando sui rami non rimase più nemmeno la traccia di una pera, il monaco si fece dare un’ascia, e tagliò l’albero con un solo colpo ben assestato, si caricò sulle spalle il tronco, e si mise in cammino con l’aria divertita.

Il contadino, sconsolato, tornò al suo carro, e lo trovò vuoto. Montò su tutte le furie, e corse alla piazza del mercato, gridando:
– Quel malfattore mi ha rubato le pere! Non era un miracolo, era una truffa! Dov’è? Dov’è?
– È laggiù -, disse qualcuno, – ma cammina velocissimo, come se avesse il vento sotto i piedi! Non lo raggiungerai!
Stolido, il contadino si mise a correre.
– Gliele farò sputare a una a una, quelle pere!
Ma, per quanto ci provasse, non riusciva a raggiungere il vecchio, che camminava sempre davanti a lui ad una velocità innaturale. All’improvviso, udì una voce:
– Bada, il vecchio ha lasciato cadere l’albero, perciò va più veloce!
Il contadino non fece in tempo a rispondere: inciampò in un tronco e cadde ruzzolando. Quando si rialzò, il vecchio monaco era scomparso, e il tronco si era trasformato nella stanga di un carro. Senza parole, il contadino tornò al suo carro, scoprendo che gli mancava proprio una stanga.

Da quel giorno, imparata la lezione, tenne sempre una quota della sua frutta da dare in elemosina a chiunque gliela chiedesse con la gentilezza del vecchio monaco.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Fiabe dell’Estremo Oriente” – Titolo originale “La pera”]

Dodicesimo suggerimento: il vecchio monaco dimostra con i fatti – e con molta ironia – che è più salutare scegliere di essere generosi, invece che esservi costretti. In tutte le situazioni della vita, abbiamo sempre una possibilità di scelta che ci avvicina ad un comportamento virtuoso, ma a volte rifiutiamo per mille ragioni di compiere quella scelta. La regina di queste ragioni è la paura di perdere ciò che abbiamo (denaro, beni, reputazione, …), che ci impedisce di vedere i benefici di un comportamento generoso disinteressato.
Siamo tutti, a turno, il mercante: per paura di perdere qualcosa, non doniamo tutto ciò che potremmo al mondo, e difendiamo il nostro piccolo recinto di sicurezze.
Questa sera continuate questa frase: “Per seguire la paura, ho perso…“. Quando avrete finito, aggiungete: “Grazie alla paura, ho guadagnato…“.


TERZA SEZIONE: VIAGGI DELL’ANIMA

Lunedì 14 marzo – Il Re venuto dal Mare

C’era una volta
un tempo in cui il regno di Danimarca rimase senza un capo, e nessuno più rispettava le leggi: i forti vivevano di rapine, e i poveri erano maltrattati e tenuti come schiavi.

Un giorno, gli abitanti della riva videro avanzare sul mare un vascello meraviglioso, con le vele scarlatte e i bordi decorati di fiori e scintillanti d’oro e pietre preziose. Esso procedette verso la riva, in silenzio, e quando si arenò sulla spiaggia nessun marinaio ne discese.
I pescatori, accorsi ad ammirarlo, per un certo periodo non vollero avvicinarsi.
Il giorno seguente, vennero i contadini, che si accamparono sulla spiaggia, ma non vollero avvicinarsi.
Il terzo giorno, infine, giunsero i guerrieri, che spade in pugno scavalcarono il parapetto e salirono sul vascello meraviglioso, per trovarvi un bambino placidamente addormentato, con una corona appoggiata sopra la testa e tutto intorno un ricchissimo tesoro.

I guerrieri, stupefatti, compresero che il bambino era un dono degli Dei, affinché il Paese avesse di nuovo un capo benevolo e saggio. Deposero il bambino su uno scudo, e con attenzione e deferenza lo portarono sulla spiaggia con tutti gli onori. Tutto il popolo lo accompagnò nel luogo in cui venivano tenute le incoronazioni, e lo proclamarono Re di Danimarca dandogli il nome di Skjold, che significa, appunto, Scudo.

Il bambino crebbe in forza e bellezza, e divenne un Re rinomato per saggezza e benevolenza, ma anche per fermezza e giustizia. Passarono gli anni, e il Regno tornò ad essere un luogo di pace e giustizia.
Il tempo, si sa, passa veloce e lento secondo segrete correnti, ma Skjold divenne comunque un vecchio bianco e curvo. Allora, convocò i suoi guerrieri, e comandò loro:
– Cari amici, quando i miei occhi si chiuderanno, portate il mio corpo sul vascello dal quale sono stato tratto, e affidatelo alle onde. Io ho compiuto la mia missione, e posso tornare da dove sono venuto.
E fece promettere ognuna delle guardie.

Così, venne il giorno in cui i suoi occhi si chiusero, e tutto il Regno si radunò sulla spiaggia. Gli posarono di nuovo la corona d’oro sul capo, e lo adagiarono su uno scudo, trasportandolo verso la nave. Allora, ogni suddito venne a dare il suo saluto, lasciando sul vascello chi una moneta, chi un fiore, chi un messaggio, chi una pietra preziosa, ammonticchiando un nuovo e più splendido tesoro.
Poi, affidarono il vascello alle onde, e qualcuno dice che Skjold e il tesoro di riconoscenza del suo popolo viaggino ancora per mare, in pace e ricchezza.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Fiabe medioevali”]

Tredicesimo suggerimento: la storia del Re Skjold ci porta nell’ambito del compito intimo dell’anima che si cala nella materia e si fa carne. In ognuno di noi, questo è stato l’inizio e sarà la fine: l’anima porta con sé i doni e i tesori che dovrà spendere nella vita, e si potrà dire che avrà compiuto la sua missione quando il suo tesoro sarà completamente speso, e ne avrà ottenuto uno nuovo, fatto dei doni che la Vita le avrà restituito.
Oggi prendetevi molto tempo per riflettere, e portate dentro di voi questo suggerimento: “Il mio tesoro dell’anima è… “. Se volete, rifletteteci per iscritto, ma lasciate che la risposta si condensi in un’unica parola. Qual è la vostra?


Martedì 15 marzo – L’anello del ricordo

C’era una volta
il giovane Re Dusianta, che si perdette nella foresta durante una battuta di caccia al cervo. Il Re conosceva bene il territorio del suo Regno, e non si era mai perso: a giudicare dal fatto che non riconosceva in alcun modo la foresta, di certo il cervo lo aveva condotto in un mondo straordinario.


Camminò per tutto il giorno, finché, a sera, trovò una modesta capanna di frasche, di certo il rifugio di un eremita, e volle bussare per chiedere riparo e ospitalità. Alla porta, apparve una giovane donna dall’aspetto meraviglioso, con grandi occhi color nocciola.
Lui si presentò e lei lo invitò ad entrare, con una voce così melodiosa da cancellare la stanchezza del Re. Gli offrì una cena frugale ma deliziosa dopo il lungo cammino, e a quel punto lui le chiese il suo nome, e cosa ci facesse da sola in quella capanna.
– Mi chiamo Sakuntala, e sono orfana. Vivo qui con il mago Kanva, che mi ha allevata: ora è in viaggio, e mi ha affidato la sua capanna. Sei il benvenuto, per tutto il tempo in cui vorrai restare.
Il giovane Dusianta non riusciva a smettere di guardala, di ascoltare la sua voce, e di certo non immaginava un motivo tanto importante da spingerlo ad andarsene. Lei, dal canto suo, era affascinata dal bel giovane dai modi nobili e gentili, ed era contenta della sua compagnia.

Come succede spesso, non ci fu molto da dire, o da chiedere: i due giovani si promisero amore eterno quella notte stessa, e furono felici.
La mattina dopo, Dusianta si preparò a tornare temporaneamente solo nel suo regno per organizzare l’arrivo della Regina e le nozze pubbliche, ma, temendo di non riuscire a ritrovare la capanna nella foresta misteriosa, prese un anello e lo infilò al dito di Sakuntala.
– Finché avrai questo anello io saprò sempre ritrovarti, e non dimenticherò mai l’amore che ci lega. Tienilo sempre con te, amore mio, e tra un mese tornerò a prenderti.
Detto questo, partì.

Sakuntala, ebbra di felicità e di gioia, attese il ritorno del vecchio Kanva, che fu estasiato alla notizia del fidanzamento della sua amata figlia, e volle attendere con lei il ritorno del suo bel Re, per impartire loro la sua più profonda benedizione.
Alla vigilia del giorno stabilito, Sakuntala addobbò la capanna con fiori e monili, e preparò un sontuoso pranzo per il giorno successivo. Poi, andò al fiume: mentre si lasciava accarezzare dalle acque fresche e gorgoglianti, però, l’anello le scivolò dal dito, e si perse nella corrente. Ora, Dusianta non avrebbe potuto ritrovarla!
Disperata, la ragazza tornò a casa, e confidò i suoi timori al vecchio mago, che fece il possibile per confortarla. Il giorno successivo, si recò al margine della foresta per attendere il suo sposo, ma con il passare delle ore seppe con crescente sicurezza che lui non poteva raggiungerla.
Allora la gioia si mutò in disperazione, e Sakuntala cominciò ad appassire come una rosa prima soffice e bellissima: temendo che non riuscisse a sopportare la disperazione, il mago alla fine decise di portarla via dalla foresta, in una terra sospesa nel tempo, oltre le nebbie, finché il suo sposo non fosse riuscito a raggiungerla. E la giovane, poco a poco, rifiorì.

Intanto, nel suo regno, Dusianta aveva dapprima scordato la via per raggiungere la capanna nella foresta, e gradualmente anche la sua bella promessa sposa, fino a credere che i pochi ricordi che aveva del loro amore fossero frutto di un sogno.
Un giorno, venne al suo palazzo un pescatore, che gli offrì un enorme pesce appena pescato, così grosso e lucente da meritare la tavola del Re. Questi lo ringraziò, e organizzò subito il banchetto in suo onore. All’arrivo della portata principale, volle aprire di persona l’enorme pesce, e immaginate la sua sorpresa quando vi trovò dentro… un anello!
Appena lo ebbe tra le dita, ricordò tutto, e nella disperazione si lanciò fuori dal palazzo, correndo come un forsennato fino ai margini della foresta. Corse per tutta la notte, finché giunse, all’alba, alla capanna ormai vuota e spoglia. Lì passò molto tempo, girovagando e chiamando la sua amata con tutta la voce che avesse, ma nessuno rispondeva. Infine, giunto alle sponde di un lago, vide arrivare sull’acqua uno splendido ed enorme cigno, bianco e argenteo, che lo invitò a salire sulla sua groppa.
Il Re, senza farselo ripetere, obbedì, e il cigno prese immediatamente il volo, conducendolo oltre colline e montagne, valli e fiumi, fino alla terra oltre le nebbie in cui il vecchio mago aveva condotto la fanciulla.

Quando furono giunti sulla riva, il Re smontò dalla groppa del cigno, e vide camminare verso di loro una figura familiare: era Sakuntala, vestita di bianco, e bella come non lo era stata nella foresta. Il dolore l’aveva resa più grande, più forte, e ancora più splendida.
Il Re si prostrò ai suoi piedi, chiedendole perdono per averla dimenticata, per non averla ritrovata.
Lei, sorridendo, gli disse:
– Ti ho atteso fino a che non ho avuto più lacrime né speranza, e poi ancora ti ho atteso. Con la perdita dell’anello, sapevo che non saresti tornato. Allora il buon mago, vedendomi così disperata, mi ha portata qui, dove sono guarita dal dolore e sono giunta ad amare me stessa come non potevo prima, perché piangevo per la tua assenza. Anch’io avevo dimenticato di amarti. Anch’io non sapevo ritrovarti. Solo quando ho realizzato questa verità, tu hai ritrovato l’anello, e ora possiamo ricongiungerci.

Fu così che, con la benedizione del vecchio mago, i due giovani montarono sul cigno e tornarono nella terra dei vivi, dove si sposarono nel grande palazzo ed ebbero una vita prospera e felice, onorati e amati da tutti.

Infine, dopo molti anni, quando venne il giorno della loro morte, il cigno bianco e argenteo tornò in volo a prenderli, e li condusse nella terra sospesa nel tempo, oltre le nebbie, dove vissero felici e in pace.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Fiabe e Leggende indiane”- Titolo originale “L’anello della rimembranza” ]

Quattordicesimo suggerimento: la foresta, i due innamorati, l’anello, il mago, la perdita e il ritrovamento, il cigno, il viaggio oltre il mondo, la terra sospesa oltre le nebbie… ci sono così tanti temi in questa storia da non sapere quasi su quale posare lo sguardo per primo!
Allora, affidiamoci al nucleo della storia, la capacità di ricordare, e lasciamoci trasportare dalle note di “Somewhere over the rainbow” nell’esecuzione di Keith Jarrett (qui), e lasciamo che un ricordo di bellezza si faccia strada nella nostra consapevolezza. Se desiderate, potete scrivere seguendo questo suggerimento: “Un ricordo di Bellezza“.
Lasciatevi trasportare dalle ali del cigno oltre le nebbie, e buon viaggio!


Mercoledì 16 marzo – Il Piacere e la Saggezza

C’era una volta
in un lontano Paese, la Saggezza, che viveva isolata e in pace nella sua dimora, senza che nulla disturbasse le sue giornate. Un giorno, però, nel Paese arrivò il Piacere, e scatenò talmente tante feste, danze, chiasso e musica da arrivare anche alla casa della Saggezza, che molto presto dovette partire per disperazione.

Ma il Piacere, forse perché per sua natura è incapace di stare a lungo in uno stesso posto, o forse perché sentiva la mancanza di qualcosa che interrompesse di tanto in tanto quelle ore goderecce, decise di partire a sua volta e di seguire la Saggezza. La raggiunse di corsa, mentre lei cercava di passare inosservata, e si scusò per l’invasione della sua casa. Poi, le propose di viaggiare insieme, e lei accettò.


Quella stessa sera, arrivarono ad un castello, dove chiesero ospitalità. Il signore del castello, però, era un festaiolo impenitente, e non volle nemmeno rivolgere la parola alla Saggezza, spedendola a dormire dal medico del villaggio. Invece, invitò di buon grado il Piacere a passare la notte con lui e i suoi ospiti.
Il giorno dopo, di buon’ora, i due viaggiatori ripresero il cammino, sbadigliando per il sonno. Si sorpresero a vicenda, ma ben presto ne fu chiaro il motivo: il Piacere, ovviamente, aveva passato una notte di insonni bagordi, ma alla Saggezza non era andata meglio. Il medico l’aveva tenuta sveglia tutta la notte, riempiendola di consigli non richiesti sulla salute e sulla vita morigerata.


Augurandosi di trovare di meglio quella sera, i due camminarono fino al tramonto, quando arrivarono alla casa di un filosofo. Questi, al contrario del signore del castello, volle accogliere la Saggezza, ma cacciò il Piacere, che dovette trovare alloggio sotto un albero, su un letto d’erba e sotto un baldacchino di stelle, ma senza cibo né divertimento.
La mattina seguente, guardandosi reciprocamente in faccia, i due viaggiatori scoprirono di essere ancora più stanchi del giorno precedente: il Piacere questa volta aveva dormito scomodo e infreddolito, ma la Saggezza era di nuovo stata intrattenuta dal padrone di casa in astratti e complicati ragionamenti.


Guardandosi, risero di gusto: avevano compreso per esperienza diretta che nessun uomo può vivere di sola superficiale gozzoviglia, né di sola profonda riflessione, senza venire a noia a tutti, e pure a se stesso. Così si sentivano i due, scoprendo di non poter vivere senza l’altro, seppur così diverso e apparentemente contrario.
Allora si rimisero in viaggio, con un nuovo obiettivo: trovare una terra dove avrebbero vissuto insieme, senza lasciarsi mai più.
Così, quando la trovarono, vi si stabilirono, e quel Regno fu fiorente e beato, poiché gli uomini poterono trarre grande beneficio dall’aiuto di entrambi i compagni.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Fiabe di Animali”]

Quindicesimo suggerimento: questa storia ci parla della necessità di trovare un equilibrio tra le necessità più terrene, legate al Piacere (ovvero al Potere e alla Sessualità), e quelle più celesti, legate alla Saggezza (ovvero al Pensiero, e all Spirito). Nessuno di noi può vivere davvero una vita piena se non trovando la via mediana tra queste due necessità.
Questa sera, chiedetevi quanto siete sbilanciati verso una delle due esigenze, e fate un elenco di persone, situazioni, relazioni che rappresentano per voi questi due poli. Poi chiedetevi: “Come posso realizzare l’equilibrio tra Piacere e Saggezza?“.


Giovedì 17 marzo – La cerva

C’era una volta
nel tempo dei tempi, un popolo ricco, saggio e potente, governato dal migliore re che si potesse immaginare, il prode Nembrod. Egli aveva due figli, Hemor e Magyar, che sognavano come tutti i principi – e tutti i giovani – di guadagnare onori e gloria in meravigliose avventure.

Un giorno, Magyar si recò a caccia con cinquanta uomini del suo seguito, e si immerse nella foresta con baldanza. Mentre cavalcava in un sentiero tra gli alberi, vide apparire, come d’incanto, una bellissima cerva dal manto candido, con lunghe zampe e corna ricoperte di velluto argenteo. Un animale ultraterreno, di sicuro! Il principe puntò il suo arco e tentò di colpirla, ma non vi riuscì, e la cerva scappò nel folto della foresta.
La inseguirono, ma ogni volta che pensavano di raggiungerla, lei scompariva con una rapidità impressionante, solo per ritornare a farsi vedere dopo qualche tempo. Se li trascinò, così, lungo valli e colline, attraversando fiumi e radure, molto lontano da casa.
Ma Magyar non si diede per vinto, finché dovette cedere alla stanchezza, e si fermò a riposare con i suoi uomini.

Subito, la cerva si fece rivedere, saltellando impaziente finché non si impigliò con le corna in un alberello. Gli uomini si agitarono, gridando:
– Presto, è là!
– Dove?!
– Laggiù, sotto quel cespuglio!
– Presto, presto!
Ma quando furono a portata di tiro, con un agile gesto la cerva si liberò e fuggì di nuovo tra gli alberi. Frustrato e ormai punto nell’orgoglio, Magyar si gettò di nuovo all’inseguimento, e di nuovo attraversò una prateria, poi di nuovo un bosco, poi una palude, sempre seguendo il manto bianco e le corna argentee.


Sfinito, raggiunse una grande prateria, dove sorgevano casette bianche, pallide sotto il cielo della sera. Ad ogni casetta si affacciava una ninfa, con capelli neri e occhi sfavillanti. Tutte sorridevano ai nuovi venuti, curiose.
Ed ecco tra le case, videro di nuovo la cerva, saltellante di gioia nel pieno della vista, e Magyar scoprì di non volerla più catturare, né uccidere. A dire il vero, non ebbe nemmeno il tempo di fare alcunché: in un bagliore, si trasformò in una fanciulla bellissima, dai capelli tanto biondi da sembrare bianchi, gli occhi del colore del cielo e un largo sorriso. Portava un vestito di raso azzurro, e una cintura di viole in vita. Con le movenze leggere della cerva che era stata, si avvicinò e parlò al giovane principe.
– Sei riuscito a raggiungermi. In molti ci hanno provato, ma nessuno ci è riuscito. Io e le mie compagne vi aspettavamo da lungo tempo, e ora potrete stare qui, e insieme con noi fondare un nuovo regno.


Fu così che Magyar divenne il loro Re, e la ninfa candida la loro Regina, e ognuna delle ninfe dai capelli scuri scelse un compagno tra gli uomini del Principe, ed essi accettarono di buon grado, perché ognuno di loro avrebbe scelto ugualmente. E da quel primo nucleo, nacque ben presto la prima discendenza di un grande Regno, che ancora oggi porta con sé la forza degli uomini e la leggiadria delle fate.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Fiabe e Leggende balcaniche”]

Sedicesimo suggerimento: questa è la storia leggendaria delle origini di un popolo, quello ungherese, che rintraccia le proprie radici in un evento di comunicazione e fusione tra il mondo umano e quello del Popolo delle Fate. Molte leggende, in giro per il mondo, raccontano di come i popoli attuali siano figli o discendenti di creature non umane, stabilendo così un legame tra l’uomo e la Natura nel suo carattere ancestrale.
Tutti abbiamo degli Antenati, e non tutti sono umani: animali, piante, pietre, stelle, pianeti, conteniamo atomi che provengono da tutto l’Universo, e di tutti loro siamo la continuazione. L’Anima, in definitiva, è Relazione. Gli antichi popoli lo sapevano, e rintracciavano nelle loro storie questa relazione cosmica.
Oggi, con l’ausilio della vostra immaginazione, rintracciate uno o più antenati, umani e non umani, e chiedetevi: “Come continuo la vostra essenza con la mia vita?“.
Ricordate: ogni passo che facciamo, ogni respiro che prendiamo, ogni parola che diciamo contiene la memoria di ognuno dei nostri antenati, e i semi di chi ci continuerà in futuro.


Venerdì 18 marzo – Il castello di cristallo

C’era una volta
un principe di nome Jasodana, che partì – come succede spesso ai principi – intenzionato a trovare una sposa nel vasto mondo. Ma per quanto cercasse, non riusciva a trovare la persona giusta.
Una sera, trovandosi nel cuore di una grande foresta, chiese ospitalità ad un vecchio eremita che se ne stava seduto sulla soglia della sua capanna.
Il vecchio sorrise, e gli fece segno di entrare. Appena varcata la soglia, il principe si ritrovò d’incanto in uno splendido giardino, ricco di fiori colorati e di soavi profumi, in cui l’acqua sgorgava da fontane d’argento, rifugio di uccelli dalle splendide melodie. Nel centro, sorgeva un palazzo di cristallo, sulla cui porta lo attendeva una fanciulla risplendente, dalla chioma colore della notte, e gli occhi profondi e caldi.
Lo invitò ad entrare, e gli offrì squisiti cibi e bevande a una tavola imbandita d’ogni bene, facendolo sedere al posto d’onore.
Alla fine del pasto, lei e le sue ancelle cantarono e danzarono per lui e gli altri ospiti, e la notte passò in piacere, bellezza e comodità.


Alle prime luci del sole, aprendo gli occhi, Jasodana si trovò disteso su una stuoia, sotto il tetto di paglia del vecchio eremita, e si mise a sedere, frastornato. Il vecchio rideva senza ritegno.
– Di certo tu sei un mago! -, esclamò il principe. – Ma un mago benedetto, perché mi hai dato ristoro e bellezza dopo lunghe fatiche. Ma dimmi -, chiese con curiosità e apprensione, – la fanciulla che ho visto… è reale?
L’eremita annuì, più serio di prima.
– Dimmi dov’è! – lo pregò il giovane. – Non posso più vivere senza di lei, e di certo è la donna che ho tanto cercato, senza mai trovarla!
– E non la troverai -, rispose l’altro, – se non attraversando grandi pericoli e prove straordinarie. È prigioniera di un castello custodito da molti guardiani, e se fallirai, come è probabile, dovrai rinunciare per sempre all’idea di vederla, perfino in sogno.
Il principe non ci rifletté nemmeno un momento: chiese al vecchio di lasciarlo provare. Doveva salvarla dalla sua prigionia! Con il suo solito sorriso, ma con una luce negli occhi, il vecchio acconsentì.

Pronunciò alcune parole, e all’improvviso Jasodana si ritrovò ai piedi di un’alta e scoscesa montagna. Il sentiero che dovette seguire era straordinariamente impervio e difficile, e più volte rischiò di precipitare in profondissimi crepacci.
Quando credeva di essere abbastanza vicino alla cima, ecco un grande drago a sette teste pararglisi davanti, con sette code fiammeggianti pronte a incenerirlo! Senza perdersi d’animo, con un urlo di guerresca determinazione, il principe gli si scagliò contro, e dopo una breve, ma terribile battaglia riuscì a precipitarlo giù da un dirupo.
La prima prova era superata.


Subito, un sibilo acuto risuonò nell’aria, e Jasodana vide strisciare tra le rocce un serpente gigantesco, che cercò immediatamente di stringerlo nelle sue spire e schiacciarlo. Ancora una volta, la spada del principe scintillò nel sole, e mozzò in un sol colpo la testa mostruosa del serpente, mentre il corpo cadeva dibattendosi tra le rocce.
Anche la seconda prova era superata.

Il principe, deciso a raggiungere la meta, proseguì il suo difficile cammino e arrivò in riva ad un grande lago dalle acque turbolente e abitate da ogni genere di abominio. Lontano, oltre l’altra sponda, si intravedevano nella bruma le torri di cristallo del castello della fanciulla dagli occhi scuri. Preso un profondo respiro, Jasodana si buttò in acqua e cominciò a nuotare, sentendo ogni volta vicino il morso, o la coda di un viscido mostro marino. Fortunatamente, riuscì a non farsi mangiare, ma le onde erano enormi e violente, e più di una volta fu sul punto di smettere di nuotare e abbandonarsi all’abbraccio mortale delle acque. Ogni volta, però, la vista oltre le onde del castello gli diede nuova forza, finché riuscì, stremato, a raggiungere la sponda opposta e a strisciare sulla riva sabbiosa.

La terza prova era superata.

Ed ecco! Sulla torre del castello vedeva ora, nitida e luminosa, la figura della giovane donna, che agitava una sciarpa in segno di incoraggiamento. Allora, si rialzò e, dimenticando per un attimo la stanchezza, si diresse verso il castello. A poca distanza dalla porta, però, si trovò davanti un immenso muro di fiamme roboanti. Scoraggiato, il principe pensò di non avere scampo, questa volta, ma poi all’improvviso sentì, oltre la muraglia rossa e dorata, la voce della fanciulla del suo sogno, che lo incoraggiava con i suoi canti soavi.
Allora, chiudendo gli occhi, Jasodana si gettò tra le fiamme con un grido, e sentì un calore lancinante afferrarlo da ogni parte, bruciarlo fin nel profondo, e infine mordergli le ossa senza alcuna pietà. Svenne.


Quando si risvegliò, era nel castello, completamente illeso, con la bella fanciulla al fianco. Lei lo ringraziò con dolcezza:
– Sei riuscito dove nessuno era riuscito, valoroso principe. Mi chiamo Ratdani, e sono la principessa di un regno lontano. Fui imprigionata qui dal vecchio mago della foresta, poiché un tempo ero superba e sprezzante di ogni cosa. Egli mi condannò a rimanere qui, finché non avessi imparato ad essere grata. Tu hai dimostrato la tua nobiltà, rischiando la tua vita e bruciando tra le fiamme ogni tua paura per salvarmi, e a mia volta io sono libera, perché ho conosciuto la gratitudine per il vero valore.
Allora i due giovani, all’improvviso, si ritrovarono nella capanna della foresta, dove il vecchio mago benedisse la loro unione con anni di prosperità e felicità immense, e vissero a lungo come Re e Regina di un remoto regno, raccontando a tutti del palazzo di cristallo, e delle insidie che nasconde.

Diciassettesimo suggerimento: questa storia ci parla della necessità di affrontare i mostri che a volte ci creiamo per proteggere i nostri lati oscuri. La principessa è rinchiusa nel castello non perché vittima, ma perché responsabile di un comportamento negativo. Il principe, che se ne innamora, non la libera, ma le dà l’occasione per andare oltre i mostri che lei stessa ha evocato, combattendo allo stesso tempo le proprie paure, le proprie incertezze e le proprie turbolenze, fino a sacrificarsi nel fuoco per raggiungerla. Ed è proprio attraverso il fuoco che brucia tutto ciò che non è l’obiettivo finale, ovvero l’amore che prova per la principessa.
Nessuno dei due salva l’altro, ma entrambi eliminano uno ad uno i propri limiti, per essere infine liberi e completi.
Ci avviciniamo alla fine del viaggio, e come il principe chiediamoci: “Per cosa affronterei il fuoco?“.
Se riuscite a dare una risposta onesta, tenetevela stretta: conoscete la vostra più intima missione.

[Riadattato da “Enciclopedia della Fiaba” – sez. “Fiabe e Leggende indiane” – titolo originale “Jasodana e il mago”]


Sabato 19 marzo – Lo Spirito Buono

C’era una volta
un saggio che passeggiava lungo un fiume: fiorivano pervinche rosse, sambuchi bianchi e azzurri, e azalee selvatiche dalle sfumature violacee. I ciliegi erano in fiore, e spandevano il loro candido profumo tutto intorno.
Guardando le nebbie che sfumavano sul letto del fiume, e il cielo luminoso dell’alba all’orizzonte, il saggio si fermò, ristorato e consolato.
“Io vengo dal paese dell’inverno”, pensò, “e ho ancora nelle orecchie l’urlo del vento. Ma qui il sole è buono, e l’acqua scorre limpida, non c’è il ghiaccio prepotente!”.

Estasiato, ritornò verso il paese dell’inverno, da cui veniva.
– Gente! -, urlava, camminando nelle strade tristi e fredde, davanti alle case chiuse e buie, – gente! Ho incontrato lo Spirito Buono! Laggiù, tra i ciliegi in fiore, c’è uno Spirito che rallegra il cuore e rende felici le persone dal cuore puro! Chi ha il cuore puro, chi ha il cuore puro mi segua!
Era certo di averlo visto, lo Spirito Buono, e forse l’aveva visto davvero.
– Chi ha il cuore puro mi segua! -, ripeteva, instancabile.
Le donne aprivano le porte delle case, dubbiose, e gli uomini non credevano alle sue parole. Restavano in casa, duri e imbronciati. Ma i bambini erano incuriositi dai suoi annunci, e uno di loro, coperto di stracci, si avvicinò al vecchio. Poi un altro, e un altro ancora. E così le madri, e alcuni dei padri.

Il saggio si fece seguire, e così si fermò in molti villaggi, annunciando lo Spirito Buono, e più la gente lo avvicinava, più ferveva la speranza di giungere nella terra fiorita dove lui era stato. Sempre di più, camminavano senza sentire la fatica, senza patire il gelo della notte.
Infine, giunsero in riva al fiume, dove i ciliegi spandevano ancora il loro profumo, e i fiori risplendevano alla luce del sole. Videro le pervinche rosse, i sambuchi bianchi e azzurri, e le azalee violacee, e le acque morbide e lucenti.
Ma lo Spirito Buono non si vedeva.
Il più piccolo dei bambini chiese al saggio:
– Dunque, lo Spirito Buono è fuggito?
– Gli Spiriti Buoni non fuggono -, osservò il saggio.
Poi, guardò verso il cielo, che sembrava di seta, con boccioli d’ovatta rosa, le nuvole, colmi di luce e di acqua.
– Vedo lo Spirito Buono! -, disse un bambino.
– Anch’io! -, gridò una delle madri.
Uno ad uno, bambini, donne e uomini, videro lo Spirito Buono, e ne sentirono la protezione.
Allora, mangiarono i frutti selvatici e bevvero l’acqua delicata del fiume, sporgendosi dalle rive colorate di rosso, di bianco e azzurro, di viola. E, sazi e contenti, gettarono a terra gli scialli, i vestiti logori dell’inverno, e danzarono e cantarono sotto i ciliegi in fiore, in onore dello Spirito Buono.
“Non l’ho inventato, lo Spirito Buono”, pensò il saggio con un sorriso. “Dove i bambini possono sorridere, dove gli adulti vedono calore e bellezza, lì c’è lo Spirito Buono”.
E anche lui, che era di cuore puro, levò la mano salutando lo Spirito Buono nel cielo di seta.

Diciottesimo suggerimento: non possiamo mai sapere se ciò in cui crediamo è vero, se non quando ci crediamo davvero, e diamo a noi stessi la prova della sua esistenza e verità. Dall’esistenza di Dio, all’innamoramento, a ciò che crediamo essere importante nelle nostre vite, è questo il paradosso dell’esistenza: siamo creatori della nostra stessa realtà, e quelle che chiamiamo “illusioni” a volte sono solo credenze che non vengono indagate, purificate e modellate per diventare verità interiori.
Il saggio, fino alla fine, conserva dei dubbi sull’esistenza dello Spirito Buono, ma nondimeno contribuisce alla sua esistenza, finché anche lui comprende che è reale e profondamente vera.
Il suggerimento di riflessione e scrittura per questa sera è: “Ho incontrato lo Spirito Buono…”.


QUARTA SEZIONE: LA NASCITA DEL POETA

La diciannovesima storia è una leggenda gallese, chiamata “la nascita di Taliesin“, in cui si racconta la magica origine della figura magico-poetica più famosa del corpus mitico britannico, più tardi assimilata a quella di Merlino: il Bardo Taliesin, nato Gwion Bach (“Giovane Sciocco”) e trasformato per magia nel più grande poeta e sapiente della storia.
Di seguito, trovate il testo della leggenda, riadattato da varie fonti, senza il supporto video e i suggerimenti di riflessione, riservati ai partecipanti alla serata del 20 marzo. Potete però utilizzare questa storia come una prova di libera riflessione, secondo la vostra ispirazione. Essa ci parla del rinnovamento e della rinascita, del Potere che ci porta la Primavera che oggi comincia il suo corso astronomicamente, ma che d qualche giorno si affaccia nel mondo nei fiori, nel sole e nella luce che aumenta.
Ogni commento che vorrete inviarci sarà molto gradito, e grazie per aver seguito questo percorso!

La ricetta della Pozione dell’Ispirazione

C’era una volta
nel cuore del Galles, in riva ad un lago di nome Bala, un piccolo regno retto da un Signore, chiamato Tegid, e da una Signora, di nome Cerridwen, dea e maga, il cui nome significa letteralmente “Donna Curva”, poiché rappresenta la Saggezza. Ella viene da alcuni accostata a Modron, e detta la “Grande Madre”, signora dell’Ispirazione e della Rinascita. Insieme a Tegid, aveva due figli, una femmina di radiosa bellezza, fanciulla dei colori della Primavera, e un figlio, chiamato Morvran (“Grande Corvo” o “Corvo del Mare”), valoroso e audace, ma orribile a vedersi.
Lo chiamavano Afagddu, “Profonda Oscurità”, e a stento gli si avvicinavano per la sua pelle scura e il suo aspetto mostruoso, tanto che la madre, disperata per il suo futuro, si struggeva per trovare una soluzione alla sua condizione.

A lungo si immerse in riflessione, e infine le si rivelò una via: pensò ai Fferyllt, i druidi alchimisti che vivevano nella grande Città di Cristallo, Dinas Affaraon, incastonata come un diamante tra le nevi dei monti di Snowdonia. Essi, si diceva, possedevano la capacità di trasformare la natura attraverso erbe e incantesimi, e possedevano la ricetta della pozione dell’Awen, l’Ispirazione poetica dei Saggi.
Si mise in viaggio, e camminò sulle nevi perenni attraverso i passi montani e i sentieri scoscesi, fino a raggiungere la valle oltre le nebbie e le cime in cui intravide le torri di cristallo della Città. Arrivò alla porta senza bisogno di bussare: il Guardiano delle Porte era in piedi tra i due battenti aperti, aspettandola con un sorriso.
La condusse al centro della città, dove le torri svettavano tra le più alte, e risiedeva il Consiglio degli Anziani, vestiti di bianco e con bastoni del potere stretti tra le mani. La osservarono, ascoltarono le sue richieste, e lessero nel suo cuore con i loro occhi scintillanti. Videro il suo sconforto, e la sua ostinazione nel voler cambiare il destino del figlio, ma anche l’amore verso di lui e la volontà di dargli un futuro di bellezza.
Decisero, infine, di concederle la ricetta della pozione, con un avvertimento:
– Signora del Lago, dovrai preparare e rimestare la pozione per un anno e un giorno, prima che tuo figlio possa assaggiarla, e solo le prime tre gocce del liquido sortiranno l’effetto voluto. Il resto sarà veleno, e non sarà utile ad altro che alla morte. Bada, però, che gli effetti della pozione potrebbero non essere quelli che tu ti aspetti.

Cerridwen accettò il loro monito, e studiò a lungo per giorni e notti, insieme ai migliori alchimisti della città, imparando i nomi segreti e i canti con cui accompagnare la raccolta delle erbe, e i momenti in cui effettuarla, sotto quale luna e quali stelle, di giorno o di notte, con quali strumenti e con quali incanti.
Quando ebbe finito, ringraziò con deferenza i Fferyllt e riprese il viaggio verso la sua dimora in riva al Lago Bala, preparandosi per la grande opera di magia che la aspettava.

Il Calderone dell’Ispirazione

Cerridwen pose in riva al Lago un grande calderone, in cui bollire la pozione per un anno e un giorno, e – non potendo controllarne di persona il fuoco – pose a sua guardia due uomini. Il primo, Morda, era vecchio e cieco, ma grande esperto delle fiamme e delle preparazioni magiche: egli rimaneva accanto al paiolo, controllando con le mani l’altezza delle fiamme, il loro calore e la loro forza, così che non fossero né troppo morbide, e non cuocessero correttamente, né troppo tenaci, così che bruciassero il contenuto del calderone. Il secondo guardiano, al contrario, era un giovane prestante e instancabile, ma sciocco: Gwion Bach. Guidato dal vecchio, rimestava il calderone, raccoglieva la legna e alimentava il fuoco, e aggiungeva l’acqua del Lago quando necessario nella pozione.
Così passarono un anno e un giorno: Cerridwen viaggiando di laghi in monti, di valli in colline, cercando e cogliendo le giuste erbe, e gettandole nel paiolo con i giusti canti e i giusti movimenti; e i due guardiani curando le fiamme e le acque, il giovane ascoltando i racconti del vecchio e i suoi esempi di saggezza e capacità.

Infine, giunse il giorno fatidico, e Cerridwen fremeva nel suo palazzo, appena prima dell’alba, pronta a portare Morvran al Lago. Laggiù, vicino alla riva dove le acque ondeggiavano tranquille, il vecchio Morda si era addormentato, e il piccolo Gwion fissava le fiamme senza accorgersi che sfavillavano sempre di più, alimentate da troppa legna: la pozione iniziò a bollire e a sfrigolare, e tre gocce incadescenti, scure e brillanti, del liquido stregato saltarono come pesci fuori dal calderone, per depositarsi sulla mano del ragazzo, che istintivamente si leccò per alleviare la scottatura e… meraviglia! I suoi occhi si illuminarono, e all’istante la Saggezza Divina fluì nella sua coscienza come un fiume di luce.
Il calderone si spezzò, lasciando colare il resto del liquido, scuro e ribollente, verso il Lago, avvelenandone le acque, tanto che sulla riva, lontano, i cavalli di Gwiddno Garanhir, signore del Ceredigion, ne vennero uccisi al solo contatto.

Diventato onnisciente, Gwion seppe immediatamente che la stessa Cerridwen aveva avvertito l’accaduto, e che già si dirigeva, in grande apprensione, verso la riva del Lago. La vide arrivare, con i capelli al vento, già furiosa e terribile, e seppe che di sicuro lo avrebbe ucciso!
Veloce, senza pensare, usò la sua nuova magia per trasformarsi in una lepre, veloce e scattante, e fuggì tra il folto. Ma, ecco, Cerridwen si mutò in levriero, e lo inseguì veloce. Lui, sentendo il suo fiato appena dietro di sé, vide la morte giungere con denti e zanne, e si gettò nel fiume, mutandosi in salmone e nuotando veloce per sfuggirle. Senza perdere tempo, lei si tuffò come lucida lontra e con potenti e liquidi muscoli inseguì il pesce d’argento. Quando lo stava per catturare, lui saltò fuori dall’acqua come scricciolo dorato, e volò lontano con traiettorie disordinate. Lei fece lo stesso, e mutata in falcone filò come una freccia, tenendolo sempre nel suo occhio dorato. In affanno, ormai sentendosi disperato, Gwion vide sotto di sé un granaio e vi si tuffò da un buco del tetto, e, trasformatosi in chicco di grano, si confuse tra gli altri, convinto di essersi salvato. Sciocco! La dea atterrò e si mutò in gallina, dal piumaggio nero come la notte, e dal becco affilatissimo: vorace, divorò tutta la scorta del granaio.
Convinta di aver portato a termine la propria vendetta, tornò al suo palazzo, ma dopo una luna scoprì che, nel buio segreto del suo ventre, un chicco di grano aveva attecchito: era incinta.

Il Bambino dalla fronte splendente

Nove lune passarono, e in Cerridwen crebbe il frutto del piccolo chicco di grano, insieme alla consapevolezza che tutto ciò che aveva tentato era stato frustrato, ma che avrebbe avuto un figlio saggio oltre ogni dire, come aveva desiderato. Le risuonavano nella mente le parole degli Anziani: “Bada, però, che gli effetti della pozione potrebbero non essere quelli che tu ti aspetti“.

Nove lune passarono, ed ella diede luce al più bel bambino che avesse mai visto, dagli occhi colmi della saggezza ultraterrena dei mondi. Negli occhi di lei non c’era più l’ardore della vendetta, ma sempre di più si rendeva conto di non avere le forze per tenere con sé il piccolo, che tanto aveva tolto al suo tenero ma sfortunato primogenito. Lo affidò al fiume, chiuso in una cesta di vimini, cantando per accompagnarlo con tutto il suo amore e le sue benedizioni. La cesta scivolò tra le acque cullando il bambino per nove lune ancora, e le note di Cerridwen diventarono le note del fiume, che insegnò al piccolo i canti segreti delle foreste e degli animali, le lingue che parlano gli spiriti della Natura ai pochi che ne intendono le parole, e i sospiri del vento che soffia sulle acque dal principio dei tempi.
Nove lune passarono, e la cesta infine si impigliò in una rete per salmoni, vuota da molto tempo, di proprietà di Elffin, figlio di Gwiddno Garanhir, caduto da lungo tempo in disgrazia perché ritenuto sfortunato, e privo, da quel giorno in cui il calderone si era spezzato in riva al Lago, della sua unica ricchezza, i cavalli del padre morti avvelenati.
Quando aprì la cesta recuperata dalla trappola, il principe trovò il bambino, con i profondi occhi aperti e brillanti, circondato dalla luce della Saggezza ultraterrena incubata in tutto il suo lungo viaggio, ed esclamò:
– Taliesin! -, che in gallese significa “Fronte Radiosa” o “Sguardo radioso”, e questo fu il nome del bambino, che crebbe circondato dal suo più profondo amore e fece rinascere la fortuna della sua casa con la Poesia e la Magia che gli appartenevano.
Fu così che nacque il Poeta più grande che la storia delle Isole ricordi, protettore dei Regni e più tardi bardo alla corte di Artù, figlio della Sapienza e della Magia, le cui parole vibravano di magia e di potere, e sono raccontate in altre storie.

Ciò che possiamo essere al nostro meglio

di Luca Cascone

Il 17 febbraio è una data da ricordare per molti motivi: nel 1652 muore Gregorio Allegri, ed esattamente un anno dopo nasce Arcangelo Corelli, nel 1867 viene per la prima volta attraversato il canale di Suez, nel 1929 nasce Alejandro Jodorowsky, nel 1980 viene proiettato per la prima volta C’era una volta in America, nel 1990 viene istituita in Italia la festa del gatto, nel 1998 muore Marie-Louise Von-Franz, e tante altre amenità.
Per inciso, nel 1600 in Campo dei Fiori a Roma succede che un tale, di nome Giordano Bruno, nato Filippo, originario di Nola, filosofo, sapiente e frate domenicano, venga imbavagliato con una briglia di ferro affinché non possa parlare, e arso vivo sul rogo per il peccato di eresia.

È un racconto comune, quello di un mondo in cui i dissensi e le divergenze vengono risolti con la violenza. I libri di storia sono pieni di questi esempi, e le occasioni di dialogo sono ridottissime, come piccole candele in un mare di buio. Bruno divenne fisicamente, a dispetto dei suoi accusatori, una torcia accesa in nome della libertà di pensiero e della coerenza con il proprio sentire profondo: trovandosi davanti a chi non voleva ascoltarlo – più volte asserì che il suo pensiero non era in contrasto con la dottrina, ma era tanto radicale da minarne profondamente le basi, e la convinzione di coloro che lo processarono – preferì la morte atroce delle fiamme, più che smentire ciò che credeva e insegnava su Dio, sulla Natura e sulle qualità dell’anima.

Molte volte ci troviamo di fronte a piccole, ma identiche sfide: a volte siamo noi a rifiutare il dialogo, e a volte lo cerchiamo disperatamente, ma dall’altra parte abbiamo qualcuno che, semplicemente, nella maggior parte dei casi ha troppa paura per ascoltare. E dalla paura, si sa, non possono che nascere rabbia, frustrazione, violenza e negazione.
Da qualche giorno mi rimbalzano tra la mente e il cuore le parole di Jim Forest, scrittore e teologo cristiano, grande sostenitore dei movimenti pacifisti e amico di Thich Nhat Hanh, monaco buddhista vietnamita che accompagnò nei suoi discorsi ed eventi in America tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Della loro collaborazione si può leggere nel libro “Eyes of Compassion: Learning from Thich Nhat Hanh”, di cui riporto la traduzione di un passo.


Una sera, in una grande chiesa Protestante di St. Louis, dove Thich Nhat Hanh stava tenendo un discorso, un uomo si alzò nel momento riservato alle domande, e parlò con tagliente sarcasmo della “supposta compassione del Signor Hanh”. Chiese: “Se Le importa così tanto della sua gente, Signor Hanh, perché è qui? Se Le importa così tanto delle persone che vengono ferite, perché non passa il Suo tempo con loro?”
Quando l’uomo ebbe finito, guardai verso Thay, stupito. Che cosa poteva dire, e cosa avrebbe potuto dire chiunque? Lo spirito della guerra aveva improvvisamente invaso la chiesa. Si respirava a malapena.

Ci fu un lungo silenzio. Poi Thay cominciò a parlare, con calma, quiete, e con un senso di personale attenzione per l’uomo che lo aveva appena bombardato. Sembrò che le parole di Thay fossero acqua che piove sul fuoco. “Se vuole che un albero cresca”, disse, “non ha senso annaffiare le foglie. Dovrà annaffiare le radici. Molte delle radici della guerra nel mio Paese sono qui, nel Suo Paese. Per aiutare le persone che vengono bombardate, per tentare di proteggerle dalla sofferenza, è necessario venire qui”.
L’atmosfera nella stanza si era trasformata. Nella furia dell’uomo avevamo sperimentato la nostra stessa furia. Avevamo visto il mondo attraverso un campo minato. Nella risposta di Thay avevamo sperimentato un’opzione alternativa: la possibilità – portata a Cristiani da un Buddhista, e ad Americani da un “Nemico” – di oltrepassare l’odio con l’amore, di rompere l’apparente inesauribile catena di reazioni violente.

Ma dopo questa risposta, Thay sussurrò qualcosa al presentatore e uscì d’improvviso dalla stanza. Sentendo che qualcosa non andava, lo seguii fuori. Era una notte chiara e fresca. Thay stava in piedi nel vialetto di servizio, a fianco del parcheggio della chiesa. Stava lottando per respirare, come qualcuno che fosse stato sott’acqua e fosse appena riuscito a nuotare in superficie prima di affogare. Non lo avevo mai visto così. Impiegai molti minuti prima di osare chiedergli come stesse, o cosa gli fosse successo.
Mi spiegò che i commenti dell’uomo lo avevano terribilmente scosso, e che era stato tentato di rispondere con rabbia. Invece, si era imposto di respirare profondamente e molto lentamente, per trovare un modo di rispondere all’uomo con calma e comprensione. Ma il respiro era stato troppo lento e troppo profondo.

“Ma perché non arrabbiarsi?”, gli chiesi. “Anche i pacifisti hanno il diritto di arrabbiarsi”.

“Sì, se fosse stato solo per me”, disse Thay. “Ma sono qui per rappresentare i contadini del Vietnam. Ho il dovere di mostrare a coloro che sono venuti qui stasera ciò che possiamo essere al nostro meglio”.


Il messaggio è chiaro: la retorica della guerra non porta a nulla, se non ad altra guerra, violenza, e sofferenza. Succede più spesso di quanto pensiamo: ogni giorno la sento nella voce di chi mi parla del dolore, della sofferenza, o della malattia.
Il dolore va contenuto, eliminato, o spento. Forse ci si convive, ma quasi mai lo si accetta o comprende.
Della sofferenza si parla con rifiuto, negazione, allontanamento. È raro trovare qualcuno che la abbracci, o che cerchi di prendersene cura.
La malattia va sconfitta, contro di essa si vincono battaglie e guerre, è un nemico da abbattere. È ancora spesso utopico che la malattia ci racconti qualcosa di noi, o che sia una via per guarire.

In questi ultimi anni abbiamo tutti fatto esperienza, a volte inconsapevole, di questo linguaggio, e delle conseguenze degli stati mentali, emotivi e fisici che esso comporta. Si cerca sempre un nemico, qualcosa o qualcuno da sconfiggere, per evitare di prendersi cura dell’unica cosa che ci separa davvero dal mondo e dai nostri simili, e in definitiva da noi stessi: la sofferenza di non comprendere, di sentirsi diversi, a volte perfino di sentirsi in pericolo. Siamo perennemente immersi in uno stato di sopravvivenza che ci spinge a trovare colpevoli, ad attaccare, a difendere confini che sono solo immaginari, muri che ci battiamo con le unghie e con i denti per non abbassare.

Eppure abbiamo la chiave sempre a portata di mano: riconoscere le reazioni dentro di noi, sapercene distaccare e sceglierle in base al contesto, e saper scegliere sempre l’amore in azione nei nostri gesti, parole, e pensieri. Jim Forest e Thich Nhat Hanh, dopo aver dedicato la vita a questo messaggio, hanno lasciato il proprio corpo fisico a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, nel gennaio 2022, ma ci continuano a dare, forte e chiaro, un messaggio di grande speranza: è attraverso il riconoscimento dentro di noi della dinamica della guerra, e attraverso la sua pacificazione che possiamo davvero cambiare le cose. Nessuna guerra si vince all’esterno, se non nella pace che viene da dentro. Dal cuore di quella pace, che è amorevole cura e attenzione, comprensione, dialogo e ascolto reciproco, vero contatto, possiamo oltrepassare tutte le differenze che apparentemente ci dividono, senza negare le nostre posizioni, ma trovando ciò che ci accomuna e aiutandoci l’un l’altro a superare la sofferenza.

Altrimenti, sarà sempre e solo guerra, e non conosceremo mai ciò che possiamo essere al nostro meglio.

Osservare la Trama

“La vita è come una stoffa ricamata della quale ciascuno può osservare il diritto e il rovescio: quest’ultimo non è così bello, ma più istruttivo, perché ci fa vedere l’intreccio dei fili”.
(Arthur Schopenhauer)

Se avete mai cercato di raccontare una storia (quella del film appena visto, ad esempio) o un aneddoto ad un’altra persona, e di certo l’avete fatto, sapete che istintivamente l’essere umano tende ad organizzare la propria narrazione attorno ad alcuni elementi più importanti, molto spesso ma non necessariamente disposti in ordine cronologico: tutto questo, utilizzando una parola molto interessante, viene definito trama.
La parola è in qualche modo polisemica, ovvero definisce diversi contesti: può essere utilizzata per descrivere i contenuti salienti di una storia, o la struttura di un tessuto, o ancora di una serie di pensieri. In ogni caso, con essa si definisce la struttura interna ad una rete di relazioni sviluppata nel tempo e/o nello spazio.

Forse non ci pensiamo troppo spesso, ma è molto interessante che in anatomia e in istologia, per descrivere l’organizzazione delle cellule in insiemi organizzati si usi il termine tessuto: gli apparati e i sistemi di cui si compone un corpo animale o vegetale, infatti, sono composti da diversi tessuti, ovvero organizzazioni di cellule simili operanti per uno scopo comune. Nel corpo umano si riconoscono quattro macrogruppi di tessuti: epiteliali (l’epidermide, gli alveoli polmonari, le mucose del tratto gastrointestinale, ecc.), connettivi (ossa, cartilagini, tendini, legamenti, t. adiposo, sangue, linfa), muscolari e nervosi.
Diversi tessuti possono unirsi a formare organi: il cuore, ad esempio, è composto da tessuto muscolare striato, da membrane connettive, da un epitelio che riveste le camere interne, e da un sistema nervoso piuttosto complesso e largamente autonomo.
Ogni tessuto, però, mantiene caratteristiche proprie di trama, densità, consistenza e palpabilità (nei limiti del possibile, ovviamente): un muscolo teso (ovvero in cui la componente connettivale abbia diminuito la sua elasticità) ha una diversa qualità tattile rispetto ad uno contratto (ovvero in cui la componente muscolare abbia aumentato la sua attività… ricordate i ponti actina-miosina?). Così un fegato, o un rene, o una membrana di rivestimento. Una mano allenata può percepire (o auto-percepire) i cambiamenti nella trama tissutale e nella consistenza, densità e disposizione del tessuto, fino a riconoscere l’impronta di un evento traumatico (un po’ come quando cerchiamo le chiavi in una borsa senza guardare, e le riconosciamo al tatto): è in questo modo che il nostro corpo immagazzina, riconosce e rielabora attraverso i l’attività sensoriale ciò che vi si imprime.
In qualche modo, tramite i nostri sensi, possiamo rileggere la storia del nostro corpo (o di quello di un altro, se ne siamo capaci) dalla trama che esso svela nella sua organizzazione: chi di noi non ha mai riconosciuto la stanchezza di un amico dalla sua espressione, o il ritorno di un vecchio ricordo gioioso nel suo sorriso, nel suo respiro e nella sua voce, o ancora sentito attraverso il tono della sua muscolatura qualche preoccupazione o grande gioia?
Nonostante questa capacità si possa affinare, è qualcosa che tutti noi possediamo per natura.

La prossima volta che incontrate un amico, provate a “leggere”: riuscite a indovinare come si sente, dalla trama che rivela il suo corpo?

Da un punto di vista narratologico, la parola trama identifica in modo ambiguo due distinte caratteristiche di una storia: l’intreccio, che gli anglosassoni chiamano plot (piano), ovvero la sequenza narrativa, non necessariamente cronologica, degli elementi della storia, e la fabula, parola latina da cui è arrivato il termine italiano favola, che indica l’ordine cronologico dei fatti, indipendente dalla presentazione del narratore.
Si potrebbe dire che la maggior rappresentazione di una delle due, anche se fondamentalmente indistricabili, delinei il carattere del narratore, o le sue esigenze: fare maggior affidamento sull’intreccio richiede attenzione per le relazioni tra eventi e personaggi, mentre seguire la più descrittiva fabula ci permette di ordinare in sequenza gli eventi e di analizzarli in modo più lineare.

La prossima volta che racconterete una storia, o seguirete la trama dei vostri pensieri, fateci caso: a quale dei due elementi fate più affidamento? Siete più affini all’uso dell’analessi (flashback) e della prolessi (flashforward), e alle libere associazioni, o alla disposizione rigorosa degli eventi?
Cosa succederebbe se vi esercitaste a cambiare prospettiva, e a dare più spazio a quella che istintivamente sfavorite?

Usiamo da sempre parole relative all’area tessile per descrivere la disposizione degli eventi in una progressione analitica o relazionale: parliamo di trama, di intreccio, di rete, di fil rouge e di filo conduttore, di nodi, di disegno, eccetera. Non a caso, le principali rappresentazioni mitologiche del destino e della conoscenza condividono queste caratteristiche: esemplari sono le Moire greche, le Parche romane, le Norne norrene, tutti gruppi di tre donne, a volte anziane, a volte di differenti età, che intessono la trama dell’Universo con singoli fili, ognuno corrispondente a una singola vita.
Delle tre dee greco-romane, Cloto-Nona è colei che fila, e stabilisce la torsione del filo, ovvero le inclinazioni e le caratteristiche strutturali dell’essere che nascerà (curiosamente, il suo nome riecheggia nel termine anglosassone cloth, tessuto), e spesso è dipinta come fanciulla; Lachesi-Decima, colei che misura e dispone, decide la lunghezza del filo e lo tesse nel grande arazzo, ed è associata a una donna matura; Atropo-Mortua, colei che finisce, è quella che decide il modo e il tempo della fine, e taglia il filo al momento opportuno (dal suo nome vengono il nome botanico della Belladonna, atropa belladonna, e la molecola atropina estratta dalla stessa pianta), ed è la più anziana delle tre.
In modo simile, le Norne, che filano, tessono e tagliano i fili ai bordi del Pozzo del Fato, alle radici dell’Albero del Mondo Yggdrasill, sono collegate a un ordine temporale: i loro nomi Urðr, Verðandi e Skuld significano rispettivamente ciò che è stato (il passato), ciò che accade (il presente), e ciò che sarà (il futuro).
Allo stesso modo, altre figure mitologiche ci ricordano il carattere tessile delle storie e del destino. Arianrhod, dea gallese, è collegata, oltre alla Luna e alle Stelle di cui è signora, al telaio con cui tesse la trama del Fato e alla Tela del ragno, associazione che si trova anche in un personaggio minoico probabilmente associato a una dea antica: Arianna-Ariadne (curiosamente, i due nomi sono molto simili), che nel mito del Minotauro agisce proprio come un ragno che con il suo filo salva Teseo dal Labirinto. L’associazione con il Ragno come Tessitore e quindi simbolo del destino è presente anche nella mitologia degli Ashanti del Ghana (e nelle sue modifiche afro-cubane), dove il dio-ragno Anansi, abile narratore (e mentitore!) tesse le sue storie come la bava della sua tela.

Queste figure ci parlano da secoli della capacità umana di riconoscere il filo che corre nell’intreccio di una tela che a volte confonde per la sua complessità, ma che è sempre recuperabile con attenzione e il giusto sguardo. A volte, siamo troppo immersi nell’analisi cronologica degli eventi per vedere un dettaglio che ci ha fatto perdere il giro (chi lavora all’uncinetto sa di cosa parliamo!); altre volte, siamo talmente immersi nell’intreccio da non renderci conto che abbiamo bisogno di mettere in fila i pensieri, le emozioni o le sensazioni…
È sempre tramite il corpo e la sua memoria, che possiamo recuperare l’andamento del filo rosso che unisce gli eventi della nostra fabula, costruendo un intreccio che è del tutto personale, unico e irripetibile: la trama della nostra esistenza fisica, emotiva, mentale guidata dallo spirito che tiene sempre d’occhio il nostro filo, anche quando noi lo perdiamo di vista.
A volte, basta solo guardare dall’altra parte dell’arazzo, cambiando prospettiva, e il filo riappare nella sua magnifica, unica sfumatura.

Le Parole del Cuore

Le avventure accadono a chi le sa raccontare.
J.S. Bruner

Dal 18 settembre 2020, è iniziato un atto creativo giornaliero, non senza intoppi, crisi e riflessioni: è il racconto della Ricerca del Cuore da parte di un giovane Albero, un Eroe mobilmente immobile che esplora Se Stesso e il Cosmo estendendo – ed intendendo – sempre di più la propria Consapevolezza.

Nel corso della sua Ricerca si dipanano riflessioni in forma narrativa sul senso delle cose, sul rapporto con il mondo e il sentire interiore, sui confini tra il corpo e lo spirito.
In definitiva, su ciò che rende viva la Vita e dà respiro all’esperienza colmandola di Senso e, si spera, svuotandola di significati sovrastrutturati.

Da un Ritmo misurato sul Tempo Esterno, il kronos della prima metà del Viaggio, in cui l’esperienza dell’Arboscello si muove sul cercare il Cuore nel Mondo che vede fuori di sé, lentamente il Viaggio lo porta a interrogarsi su di Sé e sulla propria Missione, e si immerge di nuovo nel Tempo Interiore, il kairos, che lo conduce a cercare il proprio Posto nella Foresta.

Di seguito troverete i capitoli della Cerca: ognuno di essi è una storia indipendente, quindi sentitevi liberi di pescare a vostro piacimento nelle singole narrazioni che verranno di volta in volta raccolte qui, oppure di seguire l’intero intreccio degli eventi.
In entrambi i casi, confido che l’Arboscello saprà ispirarvi.

22 ottobre 2020
Luca Cascone

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C’era una volta
un piccolo Seme, profondamente sepolto nel terreno. Come ci fosse arrivato, non era nei suoi ricordi.

Nel buio e nella sospensione, restava addormentato da un tempo che non conosceva, che non aveva confine, né passato o futuro.
Nel Tempo del Sogno, sognava d’essere Fiore, Albero, Nuvola, Vento e Raggio di Sole: non c’era limite a ciò che poteva diventare. Nessuna separazione tra lui e il volo dell’Aquila, nessuna differenza tra la forza della Montagna e il suo nido di terra.

Nel suo non-spazio privo di tempo il piccolo Seme fluttuava nella Memoria onnipresente di ciò che non ha scansione, e vede tutto ciò che nasce e muore in un unico istante: non c’era Giorno o Notte, Fame e Sete, Profondità o Superficie, Punto o Circonferenza, Bisogno o Soddisfazione, Desiderio o Paura

C’era, semplicemente, Seme e Terra, Buio e Silenzio

Poi, all’improvviso, un piccolo battito separò lo Spazio e scandì il Tempo: il Seme seppe di essere seme, e non più fiore, albero, nuvola, vento o raggio di sole.
Si ritrovò solo, ad avvertire il tempo che scandisce l’Inizio e la Fine.
Ed ebbe paura, e sentì il bisogno di essere coraggioso.
Sentì la necessità di muoversi, e la profonda angoscia d’essere separato dal mondo.

Restò in ascolto, e sentì di nuovo quel battito sconosciuto.

Così, il Cuore iniziò a insegnare al seme la gioia del divenire.

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C’era una volta
un piccolo Seme che nel buio della Terra aveva appena conosciuto il senso del Tempo.

Fino a poco prima, nessun desiderio aveva diretto i suoi pensieri, nessuna luce aveva interrotto il suo sogno, e nessuna scansione gli aveva insegnato il senso del prima e del dopo.
Era stato il Cuore a svegliarlo dal suo sonno, con un unico, profondo battito. Un tonfo sordo, appena accennato, che nel silenzio e nella stasi aveva tracciato un solco nel terreno invisibile dell’Ora.
Nel Vuoto che ora non era più vuoto, il Seme si sentiva frastornato: come se non avesse mai avvertito l’energia intorno a sé, ora sentiva l’abbraccio caldo e morbido della sua culla di terra, ma lo sentiva soffocante; come se non avesse mai avvertito il proprio peso, ora sapeva dov’era l’alto e dove il basso, ma non poteva dire dove si trovava tra i due; come se non avesse mai avvertito altro bisogno che sognare, ora il sogno non bastava più, ma non sapeva cosa volesse realizzare.

Un altro battito, un nuovo tonfo, un richiamo più urgente.
Nel sogno senza distinzione, nessuno aveva bisogno di chiamare alcuno. Come se le profonde vibrazioni incarnassero lo squasso frequente del corpo e della coscienza, svegliando nuove sensazioni e contrastanti domande. Qualcuno chiamava, ed era necessario rispondere.
Ora, un profondo bisogno animava il Seme e ne scuoteva il morbido nido.

Doveva muoversi.

Come un sottile tentacolo in cauta esplorazione, la coscienza appena nata del Seme sondò lo spazio circostante alla ricerca della fonte del battito, ma nonostante cercasse, a dispetto dell’impegno, non la raggiungeva.

– Non mi troverai che in te stesso -, bisbigliò il Cuore.

Il Seme non capì, e continuò a cercare intorno a sé.

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C’era una volta
un Seme che ascoltava il battito incessante del Cuore, ma non ne comprendeva il tacito linguaggio. Eppure, nel piccolo angolo di mondo che abitava, ne aveva capito la prima funzione: dare senso al prima e al dopo, per ristabilire il significato dell’Ora.

Si affannava, il piccolo Seme, a cercare all’esterno la fonte del canto che avvertiva ormai chiaramente, e cresceva in tensione, ansia e vibrazione. Una profonda necessità spingeva la sua ricerca, ma più si affannava più la sua piccola coscienza non raggiungeva altro che vuoto e silenzio.

Fu così che decise di rompere il proprio spazio, un tempo l’unico che conoscesse: con un profondo Respiro, se mai un seme possa respirare, si volse al di fuori di sé e si lasciò crescere alla ricerca di qualcosa di indistinto e sconosciuto. La piccola Radice non sapeva, nell’ombra del suo buio, dove andare, ma con lentezza e cautela scavava nelle profondità alla ricerca dell’invisibile membrana da cui il suono doveva provenire.

Il tocco morbido della Terra incontrò il suo corpo in aumento con sorprendente delicatezza.

– Da me avrai tutto ciò di cui hai bisogno, piccola anima. Nella tua ricerca, avrai sempre il mio abbraccio a cui tornare per nutrirti e ristorarti. Ma non tornerai a me, se non nel tuo ultimo giorno.

Il Seme accolse il dolce suono della voce della Madre-di-tutti, e si nutrì per continuare il suo viaggio.
Il Cuore stette in silenzio, e continuò a farsi ascoltare da uno spazio invisibile.

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C’era una volta
un Seme, che per cercare la fonte del battito del Cuore da cui era stato svegliato dal lungo sonno, si stava trasformando in Germoglio.
Con esili Radici continuava a scandagliare la Terra, ma ancora non aveva scoperto da dove provenisse quel ritmo silenzioso. Con grande fatica si spingeva lontano da sé, verso le profondità, e senza volerlo da esse traeva vigore e sostegno.

– Figlio mio, dovrai cercare altrove. Quello che cerchi non lo custodisco -, mormorò la Madre-di-tutti. Il Seme ebbe un tremito, e provò per la prima volta cosa vuol dire perdere la speranza.

Ancora una volta, il battito del Cuore si fece strada nella sua coscienza, ricordandogli l’obiettivo della sua Ricerca, e le giovani Radici ritornarono a cercare, ma cambiando obiettivo. Qualcosa che potesse trasformare tutto ciò che lo nutriva dalla Terra in un flusso da usare per spostarsi, e crescere in un’altra direzione per raggiungere il Cuore.

Si allargarono, le piccole Radici, e nel loro cieco percorso trovarono qualcosa di nuovo.
La Terra umida era morbida, avvolgente, calda e profondamente inebriante. Piccole gocce di fresca Rugiada erano penetrate nel buio mistero del sottosuolo, e le Radici la incontrarono come il fiume si getta nel mare, con profonda devozione e immensa gioia.

Nessuno può ricevere senza mai donare in cambio -, mormorò l’Acqua, con voce fluente. – La forza che hai tratto dalla Madre deve trasformarsi in altra Vita, non puoi tenerla per te. Io ti insegnerò a scorrere, a cambiare e a piegarti ogni volta che dovrai mutare come la Marea e la Luna.

Il Seme non conosceva la Marea e la Luna, ma l’Acqua sembrava così sicura di sé, così dolce, che credette docile al suo consiglio, come aveva fatto con la Terra.

Fu così che bevve con grande fiducia, e il suo istinto gli disse che era giunto il momento di cambiare ancora: mentre le radici si allargavano nel terreno, dal suo corpo si staccò un nuovo tralcio, ben diverso dai primi. Questo aveva in sé la promessa di un altro mondo, ancora sconosciuto ma molto diverso dal buio rassicurante della Terra.

Il Germoglio-non-più-Seme cominciò a crescere verso l’alto, pieno di nuove speranze.
Il Cuore dal suo tempio segreto, batteva con rinnovata gioia.

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C’era una volta
un Germoglio-non-più-seme, ormai saldo nelle proprie Radici, alla ricerca paziente della casa del Cuore che lo aveva destato alla Coscienza.
Progrediva lentamente, seguendo un calore e una promessa sconosciuti ma altrettanto familiari.

Confidando in una forza che veniva da oltre se stesso, il Germoglio continuava la propria strada verso l’alto, dove, lo sapeva, lo attendeva un buio diverso da quello che conosceva nell’umida Terra. Il Cuore, gli aveva detto, non era in sua custodia, e nemmeno della fertile Acqua, ma il Germoglio aveva avuto da loro sostegno, nutrimento e duttilità.

All’improvviso, la Terra sembrò cedere e farsi più morbida. Il Germoglio si erse con nuovo vigore, certo e speranzoso. Doveva essere il luogo che cercava!

– Sarà il luogo in cui mi conoscerai giorno per giorno – fu la promessa del Cuore.

Un’ultima spinta, e il terreno cedette per l’ultima volta, rivelando un mondo alieno e profondamente diverso dal quello che si era aspettato, fatto di una Terra molto più impalpabile della sua prima casa, e infinitamente più luminoso.
Un mondo in cui il suo crescere non era più limitato da dure pareti, ma libero nella ricerca del suo obiettivo: raccogliendo tutte le proprie forze, il Germoglio si estese dal piccolo ramo che era, allargando due piccole Foglie come ali neonate nella terra rarefatta.

– In me conoscerai il suono e il profumo della Vita, piccolo nato, e saprai accogliere la carezza del Vento.

Fu così che il Germoglio conobbe i doni dell’Aria, e sebbene non avesse ancora trovato il Cuore, respirò profondamente la fragranza di una nuova avventura.

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C’era una volta
un piccolo Germoglio che stava imparando con fatica e grande Meraviglia che la Vita è un brivido costante che porta da un tuffo vertiginoso all’altro nell’incertezza e nel cambiamento.

Solo poco prima aveva aperto come ali le sue prime Foglie, che ora ondeggiavano al Vento come le vele di una nave in attesa di salpare.
L’Aria gli aveva insegnato la leggerezza e l’ascolto, e ora il Germoglio sentiva sopra di sé un’altra presenza dal calore mai conosciuto. Essa aveva il sapore dell’unico vero nutrimento che avrebbe mai potuto godere nel mondo: tutto il resto sembrava impallidire a confronto.
Il piccolo germoglio levò la sua attenzione verso il Cielo.

Il Sole stava sopra di lui come una promessa di energia infinita, e i suoi Raggi raggiungevano fieri e gioiosi ogni angolo del suo essere, facendo vibrare le tenere Foglie di nuova abbondanza.
Il piccolo Seme che era stato senti nascere in sé Vita sempre nuova, che ogni Raggio aumentava in vigore e potenza.

– Ecco a te il segreto del Fuoco, giovane Spirito-della-Foresta -, gli dissero in coro milioni di Voci, tutte quelle degli infiniti Raggi solari. – Trasformare la Vita in altra Vita in forme sempre nuove, e in esse stillare goccia per goccia l’ardore dello Spirito.

Fu così che il Germoglio imparò a nutrirsi di Luce onorando il corso del Sole, e crebbe ancora: forse il Cuore era al centro di quelle Voci.

La sua Voce sembrava sempre più vicina.

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C’era una volta
uno splendido tramonto del Sole, ammirato per la prima volta da un Germoglio in piena crescita dal suo piccolo angolo di foresta.
La piccola Pianta-che-doveva-essere godeva ancora del suo calore, ma un dubbio oscurava la sorpresa per i colori variegati del Cielo e dell’oro scuro della stella: la Luce si faceva sempre meno intensa, e sembrava pronta a tuffarsi dietro l’orizzonte molto presto.
Anche le forze dentro di lui si facevano meno intense, e le Foglie si ritiravano progressivamente su se stesse.

Non bastava il raffreddarsi dei colori del Cielo dal bruno ai verdi e ai viola a mitigare la sua agitazione: aveva sperato di trovare il Cuore nelle Voci del Sole, che ora bisbigliavano sempre più sommessamente, ma per tutto il loro corso esse non avevano rivelato altro che incessante ed echeggiante Gioia.
Il Germoglio iniziò a tremare, sentendosi improvvisamente più vicino alla Terra che lo aveva generato: se il Cuore non era nel più meraviglioso dei fenomeni che avesse mai incontrato, e se quello ora fosse scomparso per sempre oltre le Nubi, tutte le sue fatiche sarebbero state sconfessate.

– Non temere, piccolo -, sussurrò il Sole già bronzeo, appoggiato sull’orlo dell’orizzonte. – Ogni fenomeno sorge e tramonta come me nell’arco del Cielo. Come al Giorno segue la Notte, così alla Luce il Buio, all’Azione il Riposo: nulla perdura se non accetta il Cambiamento.
Ora guarda l’orizzonte: solo in questo istante puoi ammirare questi colori e godere del loro canto. Anche una Fine può custodire la Meraviglia che ti ha svegliato dal sonno. Ora riposa, e sii sicuro: tornerò.

Il Germoglio si acquietò, e scoprì il brivido che provava il Sole prima del balzo.

È nel Silenzio che il Canto trova il suo compimento -, sussurrò il Cuore. – La Fine è solo un nuovo Inizio.

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C’era una volta
un Cielo stellato disteso placidamente sopra una grande Foresta, immersa in un sonno ancora leggero. Il Tramonto era passato, senza essere ancora una Memoria. Solo il blu profondo che sfociava nel nero stendeva il proprio manto sopra la Terra.

In una Radura nella Foresta, tra i pochi a non godere della pace e del silenzio, c’era un Germoglio nato quel giorno, ancora inconsapevole della Pianta-che-doveva-essere, che si dimenava tra la Meraviglia di tutte le Bellezze che stava sperimentando, e la Paura di non poter raggiungere il suo scopo.
La Casa del Cuore era ancora lontana, e ovunque la cercasse sembrava allontanarsi sempre di più.

A una a una, nel Cielo cominciarono ad apparire le Stelle, strappandolo alle sue incertezze: quelle pallide torce brillavano pulsando come non aveva fatto il Sole, ognuna come un piccolo, irraggiungibile Cuore dai battiti impalpabili. Il Germogliò voleva raggiungerle, ma sentì mancare la forza che aveva avuto di giorno, e rinunciò.

All’improvviso, un bagliore: una Stella cadde senza fare rumore, illuminando con un arco sottile la scura lavagna del Cielo e tuffandosi dietro l’Orizzonte.

Tutta la Foresta sembrò trattenere il respiro, e senza sapere perché il Germoglio si sentì sollevato e felice.
Il Sole gli aveva detto che nulla esiste senza trasformarsi: nemmeno le Stelle stavano in eterno nello stesso Cielo.
Seppe in un istante di Rivelazione che non serviva affannarsi per cercare il Cuore: lo avrebbe trovato, come ogni Stella aveva trovato il suo posto e un giorno ne avrebbe trovato un altro in cui brillare ancora di più.

– Solo quando ti abbandoni trovi te stesso – sussurrò il Cuore. – Smetti di cercare di crescere a tutti i costi, e occupati di Fiorire.

– Lo farò -, disse il Germoglio, parlando per la prima volta, e si addormentò felice.

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C’era una volta
una Notte scura, formosa, che si srotolava leggera sulla Terra addormentata. Un piccolo Germoglio aveva accettato di fermare per un momento una ricerca che lo aveva guidato e mantenuto in attività.

Sin da quando si era svegliato sottoterra aveva già imparato una grande quantità di cose, e nel suo primo giorno vissuto nell’arco del Tempo aveva compreso il fatto che a volte è necessario fermarsi per poter procedere al momento opportuno.

Profondamente addormentato, sognava come aveva fatto prima di svegliarsi. In Sogno riviveva quell’assenza di Tempo e di Spazio che era stata la sua culla e la sua riserva inesauribile di Felicità.
Non vide, perciò, la luce della Luna che iniziava a rischiarare il Cielo, prima lanterna simile al Sole dopo il Tramonto. Neppure senti il fremere delle Acque all’apparire della loro regina.

– Svegliati, piccolo mio -, bisbigliò Lei, entrando nelle trame sottili dei suoi incanti notturni.
Il piccolo Germoglio aveva atteso così tanto di ritrovare la sensazione familiare della Pace sospesa, che non ascoltò il richiamo: la Voce della Luna si perse nel Vento.

– Svegliati.

Questa volta il richiamo fu perentorio, e fece breccia nella piccola mente verdeggiante. Il Germoglio inspirò verso l’alto, cercando la Voce, e per la prima volta vide quel pallido sole d’argento che pareva chiamarlo dalle profondità del Cielo.

– Perché mi hai strappato al mio piacere? – chiese.

– Sono qui per svelarti il segreto per trovare il Cuore – bisbigliò Lei.

Destato dalla curiosità, il Germoglio all’improvviso si sentì completamente sveglio.
Restò in ascolto, in attesa che Lei parlasse di nuovo, ma più passava il Tempo, più il suo Silenzio si prolungava.
La chiamò timidamente, ma Lei non rispose, continuando a brillare, pallida e bellissima.
Passò molto Tempo, e più lui chiamava, più Lei restava in Silenzio. Più lui si spingeva verso l’alto, più Lei restava nel suo Cielo irraggiungibile.
Frustrato, il Germoglio tremò, e decise di tornare a dormire.
Stava per scivolare nel sonno, quando lo sentì: il battito del Cuore. Era molto distante, come la prima volta che lo aveva sentito, ma nel contempo chiaro come se fosse vicinissimo.

– Ti ho trovato! -, esclamò, e in quel momento il Suono scomparve.

Agitato, si rivolse alla Luna, chiamandola ancora, ma Lei non fece altro che tacere.
Di nuovo, esausto, fece per riaddormentarsi, e dal profondo riemerse il Suono pulsante. Di nuovo, al suo grido di gioia, esso scomparve.

– Come l’Acqua, il Cuore non può essere afferrato – bisbigliò la Luna.

– Non capisco.

– Ripensa alla pace del tuo Sogno: se cerchi di cristallizzarla, esso svanisce. Così è la Voce del Cuore: sottile e impalpabile come l’Acqua, ma come l’Acqua profonda e potente. Quando smetterai di afferrare, potrai Ascoltare.

Il Germoglio forse ancora non capiva le parole della Luna, ma si sentiva confortato da ciò che gli aveva insegnato.
Acquietato, ammirò la Notte-piena-di-Stelle, e prima di scivolare di nuovo nel Sogno si lasciò cullare dal morbido battito.
Ovunque fosse, il Cuore cantava per lui.

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C’era una volta
una Notte inoltrata che avrebbe presto lasciato spazio alla Luce grigiastra che precede l’Alba: pur se sognava beato, un giovane Arboscello non vedeva l’ora di ammirarla.

Nell’atmosfera umida della Foresta, una nuova presenza si fece strada tra i Tronchi e le Fronde, confondendo la Luce e rendendola diafana. Anche la Luna, alta nel Cielo, si confondeva e scompariva nel bianco perlaceo di un vapore che saliva dalla Terra e avvolgeva delicatamente gli Alberi e le tane degli Animali. Era come se le Nuvole, disorientate dall’oscurità, si fossero perse nel sentiero del Cielo e fossero scese sulla Terra per cercare il proprio posto.

– Anch’io cerco il mio posto, cara Nuvola -, disse la Pianta-che-doveva-essere.

– Sono la Nebbia, piccolo Albero. E perché mai dovrei cercare un posto in cui stare?

La piccola Pianta-che-doveva-essere restò sorpresa. Aveva pensato che la Nuvola – Nebbia, come sembrava chiamarsi – cercasse un posto diverso in cui stare, diverso dal Cielo.

– Ho passato il primo giorno della mia Vita-sopra-la-Terra a cercare il Cuore che mi ha svegliato, ma ho compreso che devo trovare prima il mio Posto. Da lì, il Cuore non mi abbandonerà mai.

La Nebbia sembrò ridere.

– Sai, piccolo amico, io vengo dall’umidità della Terra e mi trasformo continuamente, trasportata dal Vento, per donare nutrimento alla Foresta. Vengo dalla stessa Acqua che ha bagnato le tue Radici, e domani sarò probabilmente Nuvola, o Pioggia, o Lago, o Fiume. Non sono mai uguale a me stessa, e porto con me tutti i volti dell’Acqua. Così fanno gli altri miei fratelli, sotto lo sguardo attento e delicato di nostra Madre, la Luna.

L’Arboscello si sforzava di capire. Le parole della Nebbia, che ormai avvolgeva la Radura e la trasformava in un luogo senza Tempo né Confini, erano molto sicure, e lei sembrava molto felice del proprio vagabondare. Forse, chi è senza Radici non ha bisogno di trovare il proprio posto, perché il Vento e le correnti bastano a esplorare nuovi Luoghi e Tempi diversi.

– Non credo di essere fatto per una Vita tanto mutevole. Chi, come me, nasce da Radici e dal nutrimento che prende dalla Terra, ha bisogno di un Luogo in cui sentirsi al sicuro per ascoltare il Cuore.

– Forse hai ragione -, ribatté la Nebbia, che già cominciava a librarsi più alta, – anche se non sembri considerare che il mio peregrinare non è casuale, ma viene dalle direzioni che il Cuore mi suggerisce.
Questo è il mio insegnamento per te, piccolo amico: sii grato alle tue Radici per il sostegno che ti donano nel tuo crescere verso il Cielo, ma non permettere mai che diventino catene. Puoi essere meno mobile di me, o di un Pesce nel Fiume, ma puoi essere Libero allo stesso modo.

La Nebbia ora si sollevava veloce, tingendosi di colori più chiari, dal bianco lattiginoso all’azzurro chiaro, con le prime sfumature d’oro: l’Alba a Oriente era molto vicina, e l’Arboscello non vedeva l’ora di raccontare al Sole tutto ciò che aveva imparato quella Notte.

– Non esiste un unico Luogo in cui puoi ascoltarmi -, sussurrò il Cuore. – Ogni Luogo è quello giusto, se ti permetti di essere ciò che sei.

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C’era una volta
un’Alba raggiante, a oriente di una Radura nella Foresta. Gli Alberi più alti iniziavano a stiracchiarsi nei loro Rami, vibrando all’unisono con la pallida Luce che si faceva strada nel Cielo: l’oro e il rosa si contendevano l’arco che circondava l’astro ancora basso sull’Orizzonte, ma i primi Raggi cantavano già la loro canzone sulle cime più alte. In armonia con loro, echeggiavano le Voci degli Uccelli del mattino, che festeggiavano il ritorno della Luce e del calore.

Il piccolo Arboscello aveva atteso con trepidazione il sorgere del Sole, che nel giorno precedente, quello della sua nascita, lo aveva guidato e rassicurato: ansioso di raccontargli la propria esperienza della Notte, aveva immaginato di iniziare immediatamente il suo racconto. Aveva scoperto, però, che il Sole di primo mattino non era ancora disposto a dialogare come aveva fatto al Tramonto: il suo sguardo era ancora rivolto altrove.

Pur essendo l’Alba, ancora la Luce non illuminava l’erba della Radura, e l’Arboscello non ne poteva ancora ricevere il calore. Intirizzito dall’ora più buia della Notte, non riusciva a scaldarsi, ed era invidioso degli Alberi già anziani. Le loro Radici si nutrivano della leggera Rugiada che ricopriva il terreno, ma i loro Rami venivano risparmiati dal freddo, che invece irrigidiva le sue Foglie ancora giovani.
Si sentiva in trappola, e molto triste.

– Tremano le tue Foglie, giovane Albero. Non temere, la Luce ti riscalderà molto presto -, dissero in coro le piccole Gocce-di-Rugiada posate sul suo corpo.

– Eppure, tutti gli altri già ne sono avvolti, e cantano la loro canzone più felice -, osservò lui, abbattuto.

– Allora puoi cantare una Canzone triste, non credi?

– Perché dovrei? Non c’è nessuna Bellezza nella Tristezza.

– Forse -, sussurrarono i piccoli cristalli liquidi, – ma non c’è Bellezza nemmeno nello sperare di essere qualcun altro. Il tuo Posto è questo, e avrai il tuo momento di Luce, quando il Sole potrà rivolgerti il suo sguardo.

Il Cuore si fece sentire dal suo santuario: un battito profondo avvolse la radura.

– Quel momento sarà tuo soltanto, come è tua soltanto la Tristezza che ora senti nella tua Linfa. Questo merita un Canto alla Bellezza.

La Rugiada scivolò leggera sulle Foglie, abbandonando lentamente il corpo dell’Arboscello, che ora vibrava senza tremare. Il Cuore aveva ragione: sebbene si fosse sentito abbandonato, intorno a sé avvertiva solo la Bellezza del Momento Presente.
Quando cominciò a cantare ciò che scorreva dentro di lui, un Raggio-di-Sole raggiunse le sue Foglie: la Tristezza si trasformò in Pace, e la Bellezza sorse anche dentro di lui.

– Ben fatto -, sussurrò il Cuore, tenendo il tempo del Canto: aveva sempre apprezzato il Coraggio di essere se stessi nei momenti difficili.

Quando fosse giunto il momento, anche il Sole sarebbe stato fiero di lui, pensò l’Arboscello mentre estendeva gli esili Rami verso il Cielo, guidato dal proprio Canto.

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C’era una volta
un futuro Albero che cantava la sua Canzone nel piacevole tepore del Sole mattutino, in una Radura in cui la Vita aveva ripreso il suo corso ormai da tempo, dopo il riposo silenzioso della Notte.

Insieme a lui, cantavano gli Alberi più anziani, più silenziosi e discreti: ormai crescevano molto lentamente, e non dovevano più dimostrare a nessuno nella Foresta di essere degni di crescere in quel luogo.
Eppure, il piccolo Albero-che-doveva-essere si sentiva a disagio, al centro della Radura: non aveva la protezione di nessuno di quelli, più anziani, che stavano insieme oltre il confine del prato, e non rischiavano certo di essere travolti dagli Animali o dalle intemperie.

– Piccolo mio, cosa sai tu delle intemperie? -, chiese il Sole con la sua Voce multicolore: aveva ascoltato con piacere il racconto della Notte appena passata, e degli incontri che avevano ispirato il piccolo Arboscello.

– Non molto -, ammise quello. – Ma so che quando ancora vivevo nel Sogno, a volte il fantasma delle Tempeste sconvolgeva la mia Pace, e ora che ho un corpo e delle Foglie splendenti, ho paura che venga danneggiato da una di quelle mostruosità.

L’ammissione non lasciò stupito il Sole, ma nemmeno lo fece divertire: comprendeva, pur senza poterla provare, l’angoscia del piccolo Albero futuro. Quando sei una Stella, conosci turbamenti che gli esseri senzienti non possono comprendere, ma impari ad osservare i loro nel corso di miliardi di Passaggi.

Non sono io a poterti dare una risposta che ti conforterà, piccolo Amico. Ma conosco chi può farlo -, disse, e si volse verso l’Albero che nella Radura era più esposto, un grande Salice ritorto, direttamente lambito da uno Stagno su cui ancora aleggiava il ricordo della Nebbia.

– Amico mio, Salice nodoso, potrai aiutare il tuo piccolo compare, che si strugge per il suo giovane corpo?

Il grande Albero si scosse pigramente: nei suoi lunghi anni, aveva imparato ad osservare a lungo, e a parlare ben poco, a meno che non servisse.

– Ma certo, buon Padre -, cantilenò la lenta e profonda Voce. – Piccolo parente, io tra tutti i tuoi Fratelli in questa Radura ho sperimentato i Venti più freddi e violenti, che come vedi mi hanno contorto il Tronco, e deformato le membra. Ho conosciuto il Dolore, e tra i primi vedo il buio della Notte che cresce sull’acqua dello Stagno.

Il piccolo Albero-che-doveva-essere si chiese come quelle Parole dovessero confortarlo, ma decise di aspettare prima di esprimersi. Il Salice parlava così lentamente, ma con così tanta attenzione, che sicuramente aveva un motivo. Si limitò ad attendere.

– Grazie a questo, ho imparato che il mio Corpo poteva essere molto più resistente di quello che avessi immaginato, e che le sue curve non erano fonte di Dolore, ma Sostegno e Riparo per tanta Vita quanta nessun Albero alto, diritto e verticale potrà mai ospitare, e ogni Vita che ha vissuto su di esso mi ha insegnato una quantità di cose che mai avrei imparato in un solo ciclo della mia specie, e che molti dei nostri Fratelli in questa Radura potrà mai imparare.
Ecco il mio insegnamento per te, piccolo mio: non temere di essere diverso dagli altri in questa Radura, perché anche se sei più esposto, sei anche molto più fortunato. Sarai Coraggioso, e avrai molte più Storie da raccontare ai giovani Germogli che un giorno chiederanno il tuo consiglio.

Il grande Salice tornò in Silenzio, e il Sole non disturbò le profonde riflessioni del giovane Albero. Si rallegrò, però, di vedere che un nuovo Ramo stava spuntando dal suo giovane Tronco.

– La Paura di ciò che ancora non hai vissuto non può fermare la spinta della Vita -, sussurrò il Cuore. – Verrà il giorno in cui avrai Paura, ma ancora una volta scoprirai il Coraggio che la dissolve.

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C’era una volta
in una Radura nel cuore di un’antica Foresta, un piccolo Albero determinato a crescere e a imparare da chiunque volesse insegnargli i sentieri per raggiungere la casa nascosta del Cuore.
Ancora intimamente convinto che Esso scandisse il suo placido Ritmo da un luogo imprecisato ma raggiungibile, il piccolo Albero continuava a scavare alacremente il terreno con le sue Radici, che ormai lo ancoravano saldamente, e cercava contemporaneamente con sforzi misurati di crescere sempre di più verso il Cielo.

Non sapeva, a dire il vero, in quale delle due direzioni avrebbe incontrato il suo Risvegliatore: prima ancora che il suo esile Corpo si srotolasse lentamente dal terreno, intuiva che, per qualche Magia perduta nel Tempo del Sogno, esse si sarebbero potute incontrare nel medesimo Luogo oltre il Tempo e lo Spazio.

Il confine della Terra, così come quello del Cielo, sembrava impossibile da raggiungere.
Nel sottosuolo era completo Silenzio, e raramente le sue agili Radici incontravano Vite che potessero interagirvi. C’erano Vite si muovevano su di esse come gli Uccelli seguivano invisibili rotte nel Cielo, e Vite che cercavano di morderle per nutrirsi, causandogli dolore e sconcerto; tuttavia, nessuna di esse mostrava di essere intenzionata a comunicare, o a fargli sapere qualcosa di più sul Cuore.
Nonostante questo, quel mondo era stato la sua prima culla, fonte di nutrimento e scoperta. Non poteva pensare di abbandonarlo, e così continuava a cercare, a tentoni tra Terra e Rocce, ascoltando vibrazioni che lo raggiungevano da chissà dove, il cui linguaggio non gli era mai particolarmente chiaro.

Il mondo al di sopra della Terra era molto più vario, diverso, in qualche modo più riconoscibile: c’erano Luce e Spazio, ed essi diversificavano e declinavano la realtà in modi molto più complessi di quelli che l’Albero-che-doveva-essere avrebbe mai immaginato restando sotto Terra.
Si sorprese ad osservare una Nuvola solitaria che pigramente percorreva un ampio arco sopra di lui, senza alcuna fretta. Si chiese se avesse una meta, e si accorse di invidiarne la Libertà e la capacità di spostarsi. Per quanto il suo mondo fosse ricco e variegato, difficilmente avrebbe mai raggiunto i Luoghi che stavano al di là delle sue estremità, anche allargandosi il più possibile nelle Quattro Direzioni, come aveva in animo di fare.

– Dimmi, giovane Albero, cosa ti spinge ad osservarmi con tanta attenzione? -, chiese la Nuvola. – Sembrerebbe che ti interessi a me, o al mio passaggio.

L’Arboscello non distolse lo sguardo, ma si sentì imbarazzato. In quel momento, avrebbe preferito tornare al buio della Terra.

– Ti osservavo, mia cara Nuvola -, disse, quando si fu ripreso, – perché invidio la tua Libertà di muoverti da un posto all’altro nella tua Ricerca. Io cerco il Cuore, e non potermi spostare da qui mi costringe a crescere sempre di più, se voglio visitare nuovi Luoghi.

La Nuvola sembrò considerare la sua osservazione. Nel frattempo si fece più allungata, e sembrò perdere consistenza in un’estremità, come se essa potesse evaporare come faceva l’Acqua esposta al calore

– Piccolo Amico, non so come potresti invidiarmi -, disse infine, con Voce calma. – Io posso muovermi mentre tu non puoi, è vero, ma non lo posso mai fare di mia volontà: è il Vento a sospingermi ovunque voglia, e a volte i suoi soffi sono contrari tra loro. Mi investono con inaudita capacità di deformare il mio Corpo, che essendo puro Vapore non è molto resistente, come puoi immaginare. Potrei scomparire da un momento all’altro, evaporando al calore del Sole o precipitando come Pioggia.
Dimmi, piccolo Albero, hai mai visto una Nuvola uguale all’altra nel Cielo sopra la tua casa?

L’Arboscello non dovette pensare molto.

– No. Ma ho solo un giorno di Vita: potrei non aver visto molto.

La Nuvola rise, allungandosi ancora di più, e vedendo svanire nell’azzurro una buona parte della propria coda.

– Come vedi, è impossibile: svaniamo e riappariamo continuamente, come ogni fenomeno in questo mondo, solo molto più velocemente, e senza avere assunto una Forma stabile. È il mio turno di invidiarti: vivrai molto più di quanto io possa sperare, e avrai ricordi che non evaporeranno per tornare indistinti al Cielo.

Il suo esile Corpo sembrava davvero sul punto di svanire, trascinato e stirato sempre di più da Venti contrari.

– Piccolo Amico -, sussurrò morbida, ma sempre più debole, – Devo tornare al Cielo. Gli lascio i miei Ricordi, compreso il nostro incontro che mi ha fatto desiderare di non tornare come Nuvola, ma come Pianta o Sasso, per poterti seguire nella tua Cerca.
Continua a crescere, ma ricorda: potrai allargarti fino a che la tua Destra e la tua Sinistra si tocchino provenendo da direzioni opposte, o innalzarti oltre le Nuvole e scavare oltre la Terra, ma troverai il Cuore solo se accetterai la Natura del tuo essere Albero, e di ciò che essa comporta.
Addio -, sussurrò la Nuvola, e sparì definitivamente in un pennacchio di Vento.

Il Cielo era completamente libero, splendente d’un azzurro profondo.

– Albero o Nuvola, io batto per Tutti, e Tutti battono con Me -, suggerì il Cuore, e l’Albero-che-doveva-essere si accorse con sorpresa di non sapere affatto cosa significasse essere un Albero.

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C’era una volta
un giorno assolato nella Radura nella Foresta, dove un Arboscello, o forse un Seme ormai cresciuto, si arrovellava sulle qualità che un vero Albero doveva possedere per essere definito tale.

La Nuvola glielo aveva insegnato: non sapeva, effettivamente, cosa rendesse Alberi tutti i suoi simili che vedeva al bordo circolare della sua Casa senza tetto né pareti, e neppure cosa rendesse lui stesso un Albero.
Il suo Tronco ancora esile, pari a un piccolo Ramo di altri Alberi, ospitava abbastanza Vita per alcune Foglie in rapida crescita, ma né l’uno né le altre sembravano abbastanza per definirsi Albero.

Devo trovare un esperto che mi possa aiutare, pensò tra sé.

Il Sole gli sembrava esperto di molte cose, ma non certo di Alberi. La Luna conosceva molte cose sulle Acque e sui Cicli del mondo, ma probabilmente non era così ferrata sul Popolo Verde. Lo stesso valeva per tutti quelli con cui aveva parlato dal Risveglio: ognuno sapeva molte cose su di sé, ma nessuno sulla sua Appartenenza.

Decise di rivolgersi direttamente ai suoi simili, e li interrogò:

– Fratelli cari, vorrei porvi un quesito. La Nuvola mi ha detto che, se voglio trovare il Cuore, devo accettare la mia Natura di Albero. Mi vergogno -, disse sommessamente, – ma credo di non sapere quale sia. Con il vostro aiuto spero di scoprirlo.
Qual è la Natura di un Albero?

Gli Alberi si consultarono a lungo, bisbigliando tra loro, ma sembrava che non fossero in grado di trovare una risposta comune. Per qualcuno, infatti, la natura di un Albero era nello scavare la Terra con le Radici alla ricerca di nutrimento; per altri, no, essa risiedeva nell’aprire i propri Rami verso il Cielo e godere della Luce che si trasforma in energia; per altri ancora, non era corretta nessuna delle due versioni, ma si è davvero Alberi quando si hanno o non hanno certe Foglie, oppure se le si perde o se le si mantiene a lungo.

L’Arboscello non era convinto di nessuna risposta: ognuna sembrava troppo ristretta, e inevitabilmente lasciava fuori alcune caratteristiche che si potevano certo dire alberesche.
Nel mezzo delle sue meditazioni, venne sul suo Ramo un’Ape ronzante, e con le zampe delicate si aggrappò alla Corteccia solida. Indaffarata, iniziò a scorrere su e giù, all’evidente ricerca di qualcosa. Lui era affascinato: era il primo essere così libero di muoversi che conosceva, una Libertà che non avrebbe mai sperimentato.

– Cosa cerchi sul mio Tronco? -, chiese.
L’Ape si fermò giusto un istante, e riprese a camminare facendo vibrare le Ali.

– Sei uno strano Fiore -, osservò con impazienza. – Non trovo il tuo Polline. Dove lo nascondi?

L’Arboscello non aveva idea di che cosa fosse il Polline, ma di certo non aveva l’impressione di poter essere definito “Fiore”.

– Non credo di essere un Fiore. Sono un Albero. O almeno lo sarò, quando avrò imparato cosa significhi.

– Capisco. Anche gli Alberi hanno i Fiori, sai? Tra i più deliziosi e profumati che si possano trovare. Dimmi, non ne hai nemmeno uno?

Non credo, mi dispiace. Sono nato da poco, e ho solo un Corpo molto sottile e alcune Foglie che trasformano la Luce.

– Peccato. Arrivederci, allora! -, disse l’Insetto, pratico, e iniziò a far vibrare le Ali per decollare.

– Aspetta! Puoi dirmi perché i Fiori sono così importanti per te, in un Albero?

– Oh, perché essi sono il simbolo di tutto ciò che un Albero può diffondere nel mondo, un ricettacolo in cui creare nuova Vita. Anche per chi, come me, si nutre del loro contenuto e lo sparge su altri Fiori, favorendo l’incontro delle scintille che creano nuovi Frutti e nuovi Semi. Ogni Fiore che sboccia sotto il Sole è la promessa dell’Albero di perpetuare la Vita oltre se stesso, in tutte le proprie Relazioni, e di farlo in tutta la Bellezza di cui è capace.

L’Arboscello ascoltava deliziato: non aveva immaginato, come Seme, di essere stato creato. Semplicemente, per quanto ne sapeva, era sempre stato sotto Terra, attendendo il momento giusto per svegliarsi.

– Ti ringrazio, Amica mia. Spero di rivederti quando avrò i miei Fiori, e di mostrarteli, se vorrai

– Sarà un piacere. Addio! -, ronzò l’Ape, e volò via ondeggiando nell’Aria.

L’Arboscello si sentì felice. Forse non sapeva tutto ciò che c’è da sapere sull’Essere-Albero, ma aveva deciso che avrebbe avuto i Fiori più belli e pieni di Vita: lo doveva a chi, sconosciuto, lo aveva fatto prima di lui generando il Seme che era stato. Si sentì pieno di Gratitudine verso i suoi Antenati, e seppe che la loro forza lo avrebbe guidato verso la sua Creazione.
Essere Albero, per lui, significava anche questo.

– Siamo tutti Alberi dalle innumerevoli Radici, che ci nutrono dello stesso Amore -, sussurrò il Cuore, colmo di Gioia.

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C’era una volta
il giorno in cui nella Radura venne la Pioggia. Arrivò all’improvviso, preannunciata solo da pochissimi segni altrettanto repentini. Lo Stagno fu il primo ad accorgersene, riflettendo le grandi Nuvole scure che si raccoglievano veloci. Gli Alberi cominciarono a sentire la carezza del Vento che diveniva più insistente ed energica, e gli Animali avvertirono il pericolo e si avvicinarono alle Tane: nel canto degli Uccelli, che non si interruppe fino a che la prima Goccia non toccò violentemente il Suolo, precipitando da altezze elevatissime, c’era l’ansia per i Nidi e per la Vita dei piccoli.

L’Arboscello cresceva da giorni in un clima pacifico, in cui Elementi e Animali si spostavano nel Bosco liberamente, sotto un Sole caldo ma gentile, e riposavano in Notti illuminate dal curioso fenomeno della Luna che diventava una Falce sempre più sottile. Le Nuvole, se c’erano state, erano state bianchi ammassi di Spuma soffice, dai riflessi iridescenti quando i raggi del Sole le attraversavano di buon grado.

Queste, pensò il piccolo Albero, non sono certo tra quelle che i Raggi-del-Sole vorrebbero attraversare, ne sono certo.

Ascoltava con tensione crescente l’energia che scorreva nel suo Corpo all’ammassarsi degli scuri nembi: al primo bagliore lanciato nel Cielo da un Fulmine, una luce sinistra e feroce, l’Arboscello trasalì. C’era urgenza in quel Cielo, una che non conosceva e non comprendeva. E c’era Violenza, quella che aveva confessato al Salice di temere enormemente.
Si rivolse ad Esso, tremando in ogni piccola Foglia.

– Fratello, questo è il momento che temevo. Cosa posso fare?

– Quando arriva la Tempesta, piccolo mio, l’unica cosa che puoi fare è riscoprire la forza delle tue Radici -, fu la risposta secca ma gentile dell’Anziano.

E la Tempesta arrivò, scalzando via ogni Pensiero e ogni Timore, scaricando sulla Foresta una quantità d’Acqua che il piccolo Albero non avrebbe mai creduto possibile, ma a cui non ebbe nemmeno il tempo di pensare: il peso degli scrosci, unito alle raffiche di Vento, minacciavano ad ogni passaggio di sradicare il suo Corpo dalla sicurezza della Terra.
In un angolo calmo del proprio essere, l’Albero-futuro notò che in quei momenti non c’era spazio nemmeno per la Paura. La sentiva agli angoli della sua consapevolezza, completamente concentrata nel mantenere salda la presa delle Radici alla Madre.

Proprio come ha detto il Salice, riuscì a pensare, in un fugace momento di Respiro.

Fu in quel momento che, con la stessa subitaneità con cui era iniziato, il Tumulto cessò di colpo, e l’Arboscello si ritrovò in uno Spazio privo di forze in movimento, centrato sulla Radura. Sembrava che tutto si fosse fermato, e il Silenzio era totale: ai margini del Cerchio-di-Alberi, poteva vedere le chiome ancora scosse dai Venti impetuosi, ma non lì, al centro, dove stava lui.

All’improvviso, nel Tempo e nel Luogo più improbabili che si potessero immaginare, sentì chiaramente il battito del Cuore.

– In ogni moto violento c’è un Cuore, come in tutte le cose. Riconoscerlo può mostrarti la Bellezza -, disse la voce grave dell’Invisibile.

E la vide, quella Bellezza sconfinata intorno a sé: la Vita nel suo volto più caotico e violento, eppure forse la più splendente che avesse mai visto.
Si rallegrò, e con la Meraviglia in ogni Foglia si preparò a tenersi ancora più saldo nelle Radici.

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C’era una volta
nella Radura nella Foresta, il primo momento di Calma duratura dopo la Tempesta.
I rami degli Alberi ancora stillavano abbondanti quantità d’Acqua, e la Terra, innaffiata in profondità, odorava di Muschio e di Pietra umida. L’Erba, ingrassata a dovere, si reclinava morbida sotto il rinnovato peso che la Pioggia le aveva donato. Ancora nelle tane, gli Animali tacevano, a parte qualche temerario Uccello che, intravedendo la Luce, si sentiva abbastanza fiducioso da ricominciare a cantare. Un pallido Sole brillava dietro le Nuvole che si diradavano, sbirciando gli effetti, in alcuni casi devastanti, del Fortunale: alcuni Rami troppo pesanti erano caduti, e probabilmente in alcuni Luoghi della Foresta anche alcuni Alberi.

Ciononostante, il Bosco riprendeva a Respirare dopo un lungo passaggio di Tensione e di Impotenza al di sotto di quella furia, che non aveva avuto obiettivo, e quindi era Santa.
Ci sarebbe stato un Tempo in cui il giovane Albero si sarebbe rammaricato di non essere riuscito a parlare con la Tempesta nel momento in cui ne aveva sentito e visto il Cuore pulsante. Nonostante la sua immensa Bellezza, quell’esperienza era durata ben poco, e il Caos era ripreso intorno e sopra di lui con rinnovata potenza e vigore. Il Vento accanito aveva più volte rovesciato il suo fragile Tronco, che aveva testato al massimo la propria Elasticità, e l’impatto delle grandi Gocce con le sue Foglie sottili gli aveva più volte dato l’impressione che potessero forarsi a quella forza.

Era accaduto qualcosa che non avrebbe mai previsto. A dire il Vero, non lo aveva mai nemmeno creduto possibile, anche se nel profondo sapeva che prima o poi sarebbe successo. Il Vento lo aveva improvvisamente messo a confronto con la necessità di scegliere, in un momento critico, se mantenersi integro o se perdere una parte per salvarsi e continuare a vivere: aveva scelto di Perdere una Foglia.

Essa giaceva poco lontano da lui, ai margini della Radura, abbandonata come se dormisse sull’erba bagnata, godendosi il tepore che lentamente andava aumentando. Ogni tanto, una coda del ferocissimo Vento che aveva sostenuto la Tempesta la muoveva delicatamente, come per accarezzarla, un gesto inauditamente tenero per lo spietato vigore con cui aveva soffiato in precedenza.

L’Arboscello non vedeva altro che la piccola Foglia, i suoi movimenti involontari, e si sentiva stranamente lontano da quella sottile lamina verde che fino a poco prima era stata una sua estensione, parte della sua Coscienza e dell’Immagine che aveva di sé. Sconcertato, ma sereno, si accorgeva di quanto quell’esperienza lo stesse cambiando nel profondo: si stava rendendo conto di non potersi definire solo sulla base di ciò che era il suo Corpo.

– Tu sei in tutto ciò che ti rende Vivo, e che nutri con la tua Vita -, sussurrò una Voce delicata, più sottile di quella del Sole, ma altrettanto luminosa.

L’Arboscello cercò la sua fonte, ma vide solo che il Sole si stava ormai liberando dall’assedio delle Nuvole, ed ora illuminava la Radura e la Foresta, impegnandosi al massimo per riscaldare al meglio tutti i Corpi intirizziti dal freddo e dal Vento. Non c’era traccia di chi aveva parlato, sebbene le sue Parole fossero sagge e presupponessero una presenza ben visibile.
All’improvviso, vide un guizzo di Luce e concentrò la propria attenzione al di sotto delle Nuvole che ora correvano verso Oriente, esattamente di fronte al Sole, e lo vide: pieno di gioia improvvisa, capì la difficoltà degli altri Alberi di spiegargli l’Arcobaleno.
Bisogna vivere un grande Tumulto per provare davvero la Felicità che si prova alla vista dell’Arco-di-Luce.

– Come l’Arcobaleno, non bisogna essere necessariamente interi per vivere la Bellezza: essa è sempre con te, devi avere gli occhi per guardarla -, sussurrò il Cuore.

L’Arboscello sentì profondamente dentro di sé le parole dell’Invisibile, e dimenticò lentamente l’angoscia per la piccola Foglia perduta: dalla sua posizione al di sotto delle altre, non avrebbe mai goduto della vista dell’Arcobaleno come faceva ora, direttamente sdraiata sotto il cielo.
L’Arboscello inspirò felice, e godette il tepore del Sole.

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C’era una volta
una Notte nella Radura, illuminata da una Luna avviata verso la fase discendente, fresca e leggermente umida. Il piccolo Albero nel Cerchio-di-Alberi cresceva ormai da un po’ di tempo, e si era fatto più forte e alto: alla piacevole Brezza che alitava sulla Foresta, le sue Foglie ondeggiavano alla Luce d’argento, godendo di un piacevole dormiveglia.

Uno strano suono lo destò dai Sogni incolori e informi del Popolo Verde, come quelli che faceva quand’era un Seme sotto terra, e cercò pigramente intorno a sé la fonte di quel Suono. Su una Roccia accanto a lui, comodamente appoggiato, stava un grande Uccello dai colori delle cortecce dei Faggi e dei Castagni, che lo fissava attentamente come in attesa.
Un paio di enormi Occhi bronzati sembravano scandagliare ogni singolo centimetro del suo Corpo e delle sue Foglie, e più in basso come se potessero scorgere le Radici da cui tutto era nato. Il grande Uccello era immobile, a parte piccoli scatti della testa con cui dava segno dell’osservazione che stava mettendo in atto.

– Chi sei? E perché mi guardi così? -, chiese il giovane Albero, un poco intimorito dalla profondità dello sguardo dell’animale.

– Io sono il Guardiano di questa Foresta. Mi chiamano Manto-d’Argento, e sono qui per conoscerti. Mi hanno parlato di un Seme che sta diventando un Albero proprio qui, al centro della Foresta. Dovevo vederti con i miei occhi.

L’Arboscello era profondamente sorpreso. Per la prima volta, il suo Orizzonte acquistava un Senso e un orientamento oltre la sua ristretta percezione. Le sue Radici crescevano, e i suoi Rami con loro, permettendogli di cogliere sempre più dettagli, ma di certo non si spingevano oltre il Confine della Radura; ora, improvvisamente, sapeva di essere in un punto preciso di un vasto territorio, e non un punto qualsiasi.

Non so nulla della Foresta oltre questa Radura -, ammise ad alta voce, sperando di non risultare ridicolo. Poi aggiunse: – Di certo non sapevo di esserne al centro.
Non aggiunse altro, ma pensò che dovesse significare qualcosa. Come leggendogli nel Pensiero, l’Uccello si rassettò le Piume e lo guardò di nuovo, dicendogli:

-Mio caro, è ovvio che sei qui per un motivo. Nulla accade per Caso, ed è ora che inizi a riconoscerlo, nonostante la tua giovinezza. Passeranno molte Stagioni prima che ti venga chiesto di occupare pienamente il tuo Posto. Per ora, devi sapere che l’unica cosa che importi è che tu cresca imparando ad entrare quanto più possibile in Relazione con questa Foresta e con i suoi Abitanti.

L’Arboscello pensò che aveva già imparato moltissimo del Territorio che lo circondava, ma si rese conto di quanto ancora non avesse indagato e riconosciuto. Si ripromise di farlo giorno per giorno, al suo meglio.
Manto d’Argento sembrò d’accordo, anche se nulla in lui aveva espresso quell’assenso.

– Ben fatto. Avrai bisogno di un Nome, mio caro: per il momento, sarai “Cercatore”.

Non sembrava esserci Spazio per il gusto personale, pensò l’Arboscello. Poi, però, si accorse che il Nome gli si addiceva, e gli piaceva molto. Il Guardiano sembrava molto esperto di ciò che i Nomi significavano e portavano con sé. Avrebbe voluto imparare qualcosa della sua Saggezza.

– Lo farai a tempo debito, piccolo amico. Ci rivedremo, molto presto: seguirò i tuoi progressi molto attentamente; quando avrai bisogno di me, io arriverò. Addio, Cercatore.

Silenzioso come null’altro che il Cercatore avesse mai visto, Manto d’Argento aprì le Ali e prese il Volo: sparì oltre il culmine del Salice in pochi battiti, e l’Arboscello fu di nuovo solo.

– Nulla, però, è più come prima -, sussurrò il Cuore.

Era vero: ora sapeva qual era il suo Posto, e aveva un Nome da portare.

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C’era una volta
un piccolo Albero che aveva da poco scoperto quale fosse il suo Posto nel Mondo. Cresceva in una Radura al centro della Foresta, il cui Guardiano gli aveva dato un Nome e una Prospettiva verso il Futuro. Mai, prima d’allora, l’Arboscello aveva immaginato che il Futuro potesse servire a qualcosa.

Ora, si accorgeva che la sua posizione era stata dettata da una Volontà, e da Seme aveva dormito in un Luogo non casuale: se c’era un Disegno dietro il suo Risveglio e la crescita che stava affrontando, forse, come aveva detto Manto d’Argento, c’era un Disegno anche per il suo Futuro, per ciò che sarebbe diventato.
Aveva creduto di essersi svegliato per trovare il Cuore, ma iniziava a pensare che fosse stato il contrario; che il Cuore lo avesse svegliato per osservarsi meglio da un altro punto di vista.

Nel Silenzio della Notte che lo abbracciava, la consapevolezza di questa possibilità si insinuò lentamente dentro di lui, scavando nel profondo delle Motivazioni della sua Ricerca, e trovando in esse lo stesso ostacolo che le avevano rese irrealizzabili: aveva creduto di poter trovare, nel Mondo esterno, il Luogo in cui il Cuore viveva e da cui cantava.

– Te lo avevo detto -, sussurrò dal suo battito l’Invisibile.

Il Cercatore procedeva lento nelle sue meditazioni. In Silenzio, considerava la nuova Direzione di Ricerca come un predatore appostato nella paziente attesa dell’arrivo del suo Obiettivo, e cominciava ad intravedere una possibilità completamente nuova da quando si era risvegliato nel profondo della Terra.
Non avrebbe trovato il Cuore in nessuno dei Luoghi che le sue Radici e i suoi Rami avrebbero raggiunto, ormai gli era chiaro; la sua crescita non poteva più continuare nella stessa Direzione, perché i precedenti motivi erano caduti.
E ora, improvvisamente, si rese conto di non avere più un motivo valido per crescere.

– Dovrai trovarlo in te stesso, finalmente -, lo incoraggiò il Cuore.

– Cercarti nel Mondo che vedevo sembrava molto più semplice.

– Ti sembrava più facile, invece. Ora puoi crescere per te stesso, e diventare ciò che sei davvero.

– Tu sai chi sono?

– Io so chi potresti Essere.

L’Arboscello decise di non ribattere. Lo avrebbe fatto decidendo di essere Se Stesso.

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C’era una volta
un Albero-Cercatore, così era stato chiamato dallo Spirito Guardiano della grande Foresta in cui viveva. Il suo Scopo, per lungo Tempo, era stato quello di cercare la casa del Cuore nel Mondo che lo circondava; ora, si rendeva conto che il suo sogno di Seme non era realizzabile, e che avrebbe dovuto trovare un altro motivo per crescere e prosperare.

Conosceva ben poco della Foresta intorno a sé: in tutto l’arco della sua crescita come Germoglio aveva potuto comunicare solo con il grande Salice che stava a guardia di uno Stagno nato da una Fonte, visibile dal centro della Radura, ma mai davvero considerata.
Non conosceva nulla degli altri Alberi che disegnavano i Confini della sua casa, e nemmeno degli Animali che lì vivevano.
Nella sua breve – seppur ricca, andava detto – Vita, aveva soltanto avuto occasione di parlare con il Guardiano della Foresta.

Ora, rimpiangeva di non aver avuto il Coraggio di spingersi oltre per richiamare a sé Coloro-che-possono-muoversi, né di parlare con quegli Alberi la cui Coscienza poteva toccare le sue Fronde ancora poco ampie.
Si rese conto di sapere ben poco anche del Vecchio Nocciolo che piegava i suoi Rami verso le placide Acque della Fonte. Gli era sempre sembrato molto silenzioso, ma saggio, e molto probabilmente più vecchio del Salice. Sicuramente lui sapeva come trovare una Visione che mostrasse lo scopo della sua esistenza.

Il Cuore aveva detto al piccolo Arboscello che avrebbe dovuto trovare da solo la propria Strada, ma a parte il proprio Nome, e il proprio posto al centro della Foresta, per il momento non gli era chiaro nient’altro.
Non potendo raggiungerlo fisicamente, spinse timidamente la propria Coscienza verso il vecchio Albero.

– Saggio Fratello Nocciolo, ho bisogno del tuo Consiglio. Ascolterai la mia domanda, prima che la Pioggia cada e impegni noi tutti nella raccolta di Acque pulite?

Il Nocciolo non parlò, ma continuò placidamente a ondeggiare al Vento e ad osservare le Acque increspate della Fonte e dello Stagno. Le Nuvole si radunavano al di sopra di loro, e il Sole era velato da Tempo. L’Anziano diede segno di ascoltare con un basso borbottio, e l’Arboscello continuò.

– Sto cercando la mia Visione, la Voce del Cuore dentro di me, per poter finalmente crescere per ciò che sono nato, e non per una ricerca vana. Cerco il tuo Consiglio perché sicuramente tu lo hai fatto prima di me e puoi indicarmi la Via -, aggiunse, tentando un complimento.

– Piccolo Fratello -, disse il Nocciolo facendo vibrare i suoi Rami contorti, – Io posso solo raccontarti la mia Storia, ma la mia Via non è la tua, e di certo probabilmente non è la migliore.
Posso dirti questo: per molto tempo sono cresciuto ai margini di questo Stagno ascoltando la Voce della della Fonte senza conoscerne la provenienza, e mi sono convinto che la sua Voce fosse la mia. Tutto ciò di cui avevo bisogno era in quella Voce, mi dicevo: quando ne avessi scoperto la provenienza, avrei trovato la mia vera Direzione.

L’Arboscello si riconosceva in quelle Parole, ma non capiva come potessero aiutarlo.

– Un giorno – continuò il Nocciolo, – fui abbastanza grande da poter finalmente vedere le Acque della Fonte, e credetti per un momento che essa mi avrebbe rivelato il mio Futuro, come alcuni dicono che possono fare le polle come questa.

– E non lo fece?

Il Nocciolo rise, un rombo sommesso che gareggiava con quello dei Tuoni che ora scuotevano le Nuvole al di sopra della Radura.

– In queste Acque non ho mai visto altro che il mio Riflesso, giorno per giorno in tutte le mie lunghe Stagioni. Esso mi ha rivelato tutto ciò di cui ho mai avuto bisogno.

L’Arboscello non sapeva cosa Dire, e il saggio Albero sapeva quando Tacere: aveva detto tutto ciò che serviva.

– Forse non era il Consiglio che ti aspettavi, ma è uno dei migliori che abbia mai sentito -, chiosò divertito il Cuore.

Le prime Gocce di una Pioggia leggera caddero su di loro, increspando la superficie dello Stagno e confondendosi con il gorgoglio della Fonte.

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C’era una volta,
immerso nello scorrere continuo di una Pioggia delicata, un giovane Albero che aveva da poco fatto una scoperta destabilizzante. Aveva creduto, fin dal suo Risveglio come Seme sotto Terra, di poter trovare una Guida che potesse indicare la giusta Via da percorrere per realizzare il suo Destino.

Senza saperlo, l’Arboscello era nato al centro della Foresta, e probabilmente questo voleva dire qualcosa di importante; ma non avrebbe saputo dire altro in merito, e questo lo sconcertava.
Era un Cercatore, come lo aveva battezzato il Guardiano-della-Foresta, e non sapere dove o cosa cercare non gli sembrava molto degno della sua Natura.

– Forse il punto è semplicemente Cercare -, suggerì il Cuore, che allegro seguiva il ticchettio della Pioggia con il proprio battere.

Un saggio Nocciolo, molto più Anziano di lui, lo aveva avvertito: non avrebbe trovato negli altri più di quello che poteva trovare in Se Stesso. Fino ad allora, l’Arboscello non aveva mai ricordato la prima cosa che il Cuore gli aveva detto dopo il Risveglio:

– Non mi troverai che in te stesso.

Forse aveva sbagliato: per tutto il tempo aveva fatto come il Vecchio Nocciolo, che fino al giorno in cui aveva guardato nello Specchio d’Acqua della Fonte aveva creduto di leggervi il Futuro, e si era ritrovato a guardare il proprio Riflesso. Forse, la strada giusta era guardarsi dentro, e permettersi di trovare il motivo per crescere.

Una Goccia-di-pioggia cadde dolcemente su una delle sue Foglie, ma non si spezzò come molte altre. Rimase in bilico, senza scorrere verso Terra e nemmeno muoversi. L’Arboscello la osservò con attenzione, sentendone nel palmo della Foglia la consistenza e il peso lievissimo, quasi inesistente.
La Goccia era una perfetta sfera di cristallo, immobile tra le altre che invece continuavano a cadere morbide e gentili, molto diverse da quelle che avevano devastato la Radura durante la Tempesta. Sembrava attendere qualcosa, e rivolgeva tutta la sua Luce verso l’Arboscello, che ora si vedeva parzialmente riflesso nella superficie trasparente.
Forse non poteva raggiungere la Fonte per specchiarsi nelle sue acque, ma avrebbe trovato un proprio modo di seguire il consiglio del Nocciolo.

– Forse tu mi puoi aiutare -, bisbigliò, incuriosito ma timido.

La Goccia non rispose, ma non si mosse.

– Forse puoi dirmi cosa vedi, nel tuo Riflesso, piccola Goccia. Imparerò qualcosa che possa aiutarmi a costruire il mio Destino.

– Sono qui per questo -, rispose la Goccia in tono pratico.

La Luce sembrò aumentare un poco, e l’Arboscello poté vedere meglio la superficie cristallina dell’Acqua. Si vide per la prima volta, un giovane Albero dalle Foglie ondulate sui Rami forti ed elastici, già folte nonostante la giovane età. Il Tronco, coperto da una corteccia scura e percorsa da striature, sembrava destinato a diventare molto imponente. Giovani Gemme spuntavano dagli apici dei Rami, promettendo di espandere ancora di più la Vita che scorreva nella sua Linfa.

– Diventerai un Albero forte e maestoso, Amico mio -, disse la Goccia, rompendo il Silenzio.

– Eppure, mi sento così piccolo… -, rispose l’Arboscello.

– Dovrai pur cominciare da qualche parte, non credi?

L’Arboscello tacque. Non conosceva un altro Albero che avesse le sue fattezze, nel Cerchio della Radura: non avrebbe potuto chiedere consiglio a un suo simile, ma solo a parenti dalle diverse caratteristiche.

– Forse-, bisbigliò il Cuore, – è meglio così: potrai diventare l’Albero che desideri, e non quello che ci si aspetta da te.

Forse, pensò il Cercatore, questo era il privilegio di essere nato al centro di una Foresta.

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C’era una volta,
in una Radura ancora immersa nella Quiete dopo la fine di una Pioggia gentile, un giovane Albero che si lasciava ristorare dalla morbida umidità che lo avvolgeva.
Una leggera Nebbia avvolgeva la Radura, alzandosi dallo Stagno, silenziosa e discreta, e lasciava intravedere alcuni scorci dell’ambiente, rivestendolo di un’aura di incertezza.

L’Arboscello, ancora intento ad osservarsi per decidere che tipo di Albero volesse diventare, non si accorse del lieve scalpiccio con cui l’Acqua annunciava l’arrivo di due visitatori sulla riva dello Stagno. Sul bordo dell’Acqua trasparente e ancora tremolante alla fine della Danza delle Gocce-di-Pioggia, due esili forme procedevano con cautela nelle confuse volute del vapore.
Una splendida Cerva, seguita dal suo Cucciolo, ancora malfermo sulle zampe, si stava avvicinando all’Acqua per abbeverarsi. I manti umidi, ancora imperlati di piccole Gocce-di-Pioggia, scorrevano leggeri sulle membra dei due Animali, più morbidi nella Madre, e più scattanti nel Piccolo, che trasaliva ad ogni suono inaspettato e ad ogni movimento intravisto ai margini del campo visivo.

La Madre osservava l’ambiente con sguardo morbido ma attento, lasciando che il Cucciolo lo esplorasse liberamente. Incuriosito dal Luogo, si mosse dalla riva e si diresse verso il centro della Radura, e l’Arboscello lo poté osservare con molta attenzione lungo tutto il suo cammino; si sorprese ad invidiare le sue Zampe, che, seppur sottili e incerte, gli davano la possibilità di muoversi.
Il Cerbiatto, inconsapevole di essere osservato, si diresse sempre più verso il centro della Radura, brucando distrattamente qua e là, finché si accorse dell’Arboscello. Lo fissò incuriosito per un istante, poi mosse il naso verso i suoi Rami e solleticò le Foglie con il suo fiato, fino a saggiarle con i denti quadrati.

– Che fai, Piccolo? -, esclamò l’Arboscello, che non si era mai aspettato che qualcuno potesse tentare di mangiarlo.

Il Cerbiatto scartò bruscamente, saltellando e alzando la testa in segno di allerta. Poi lo guardò con più attenzione, si avvicinò e lo annusò di nuovo.

– Non sei uno di quei cespugli morbidi. Ma le tue Foglie sono appetitose.

– Sono un Albero, Piccolo -, rispose il Cercatore, che non aveva mai saputo di avere Foglie buone da mangiare. Non se ne stupiva: gli erano sempre sembrate piuttosto gustose. Ma cosa ne sapeva, effettivamente?

– Oh, non sembri un Albero. Sei piccolo. Gli Alberi sono alti e forti, e hanno Chiome che riparano dalla Pioggia. Se mi riparassi sotto le tue Foglie, sarei completamente bagnato!

L’Arboscello stava per rispondere piccato, ma la Cerva rise, avvicinandosi ai due.

– È un Albero ancora giovane, Piccolo mio, come te. Ma come te, diventerà alto e forte, e i suoi Rami saranno molto fitti, tanto da poter riparare molti Animali dalla Pioggia.

– Lo credi davvero? -, chiese il Cercatore.

– Ma certo. La tua Specie produce grandi esemplari. Non ci sono molti tuoi simili da cui imparare, da queste parti, vero?

– No -, ammise lui, senza aggiungere altro. Poi la curiosità ebbe il sopravvento: – Tu sai che Albero sono?

– Anch’io lo so! -, esclamò il Cerbiatto, felice di rientrare nella conversazione. – Ho conosciuto un tuo simile qualche mese fa, con il Tronco tanto grande da potermici nascondere dietro! Vuoi saperlo?

L’Arboscello ci rifletté sopra.
Aveva passato molta della sua Vita di Seme, e poi di Germoglio, a cercare il Cuore nel Mondo esterno. Ci aveva rinunciato, perché aveva compreso di poter trovare solo in Se Stesso la Vita che voleva realizzare.
Ora gli si presentava l’occasione di conoscere qualcosa di inestimabile: da dove veniva, e qual era il Retaggio che i suoi predecessori gli avevano trasmesso.
Aveva rinunciato anche a questo: si era liberato poco prima della smania di saperlo, così da poter scegliere da solo il proprio Sentiero, e ora la Foresta gli donava la possibilità di accogliere la propria Eredità come parte di sé, e non come legame a un Sentiero prestabilito.

– Sei pronto -, disse il Cuore in un sussurro.

– Sono pronto -, ripeté lui.

I due Animali si guardarono per un istante.

– Sei una Quercia, piccolo -, gli disse la Cerva con gentilezza.

– Sei un Signore della Foresta, proprio come mio padre! -, esclamò il Cerbiatto, saltellando senza più contenersi.

Il Cercatore aveva immaginato di essere felice, quando avesse scoperto la propria Specie, eppure sentiva un senso di Connessione con la Foresta che non aveva mai sperimentato.
Aveva sentito la forza dei suoi Antenati, una volta, ma senza conoscerli.
Ora che in qualche modo sapeva chi fossero, li sentiva dentro di sé, e decise che avrebbe scoperto cosa significasse essere una Quercia a modo suo.

Era pronto a crescere di nuovo.

– Sapere da dove vieni senza restarne prigioniero può darti la Forza di scoprire dove deciderai liberamente di Andare -, sussurrò il Cuore, mentre ancora il Cerbiatto saltellava intorno al tronco dell’Arboscello.

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C’era una volta
un giovane Signore-delle-Foreste che, dopo una lunga pausa di riflessione, aveva deciso di ricominciare a Crescere nel centro della Radura che lo ospitava.
Per lungo Tempo aveva creduto di crescere per trovare il Cuore, suo Alleato e Risvegliatore, e poi per altrettanto lungo Tempo si era chiesto in che tipo di Albero trasformarsi. Grazie a un Cucciolo-di-Signore-della-Foresta come lui, aveva scoperto di essere una Quercia; anche se non sapeva esattamente cosa volesse dire, sentiva una Possibilità aprirsi dentro di sé.

Esplorare le caratteristiche del proprio Corpo, e le sue Abilità, poteva dargli molti più indizi su ciò che poteva realizzare di mille conversazioni con Alberi e Animali, che vivevano in Corpi molto diversi dal suo.
Questo lo faceva riflettere: Osservando senza fretta le Gemme trasformarsi in Foglie ricche e smeraldine, si chiese quali parti di quel Corpo di Legno e Linfa potessero abbandonarlo senza che perdesse la propria identità.

Già un’altra volta, al termine di una Tempesta, quando la furia del Vento gli aveva strappato una Foglia, si era reso conto di poter perdere parti di sé senza perdersi del tutto. L’Arcobaleno gli aveva insegnato che non è necessario essere interi, o presumerlo, per vivere nella Bellezza, e questo era stato di grande conforto. Ora però si chiedeva, per la prima volta, cosa lo rendesse davvero Se Stesso.
Non poteva chiedere agli altri Alberi, o agli Animali, qualcosa che poteva sapere solo da Sé. Il Cuore, certo, stava a guardare, ma avrebbe lasciato come sempre che scoprisse da solo il proprio sentiero.

Decise di Osservarsi senza distrazioni: per prima cosa, scandagliò il proprio Corpo, sentendone ogni recesso delle Radici, ogni Ramo teso verso il Cielo, e ogni Gemma fiorente di Promesse. Si sorprese di tutta la complessa Rete di Relazioni che sentiva al proprio interno: il febbrile lavoro delle Foglie impegnate a trasformare il calore della Luce in Energia per nutrirsi; i Rami, anche i più elastici, dall’aspetto solido di chi prende con grande serietà il ruolo di Sostenere la Vita; i lenti e potenti flussi di Linfa che percorrevano il Tronco modellandone i canali e le forme, ma invisibili all’esterno, dove la Corteccia già sembrava promettere la forza della Roccia. Nessuno di essi, per quanto cercasse, era indispensabile a definirlo.

Nonostante tutto, decise di proseguire.
Sentì, improvvisamente, il bisogno di tornare sotto la Terra: come se la Voce del Cuore glielo imponesse, si lasciò Affondare placidamente.
Nel silenzio delle Radici, ormai inusuale da quando la sua attenzione era quasi sempre rivolta al Mondo-sopra-la-Terra, si ritrovò in un Luogo quasi dimenticato: il Buio confortante in cui tutto era cominciato, che si estendeva molto più in basso di quanto avesse immaginato da Ghianda.

– Finalmente ritorni, mio Amato -, l’avvolse la Terra, con garbo.

Ricordava la Sua Voce, l’Albero-Cercatore, ma non l’aveva sentita da molto, moltissimo tempo. Gli ricordava il Tempo del Sogno, in cui aveva dimorato prima di decidere di crescere verso l’alto, alla ricerca del Cielo.
– So cosa cerchi, ma non lo troverai in parti del tuo Corpo. Là dove puoi udire la Voce del Cuore, sei l’intero tuo Corpo e l’intero Mondo dentro e fuori di lui -, lo incoraggiò la Madre-di-tutti.

– Non capisco -, disse lui, che già sentiva le dolci note mute del Sogno.

– E non lo farai mai. Devi Sentire.

Dopo così tanta Cerca, non è semplice l’Abbandono, pensò l’Arboscello.
Rientrare nel Sogno con un Corpo ormai formato, questa era un’Avventura che non avrebbe creduto di Vivere.

– È la più dolce che potrai mai percorrere -, sorrise il Cuore.

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C’era una volta
un Albero-Cercatore che si lasciava crescere senza cercare Nulla al di fuori di sé. Aveva scoperto lungo una fiorente Infanzia illuminata dal calore del Sole che a nulla serviva cercare ciò che importa nel Mondo esterno: essendo un Albero, aveva presto imparato che per quanto potesse diventare alto e allargare i propri Rami, non avrebbe mai potuto raggiungere fisicamente il Mondo al di là della Radura che abitava.

Aveva scoperto che l’unico modo per accedere davvero alla propria Natura era ritornare a ciò che era stato dal Principio, fin da quando non aveva un Corpo né uno scopo.
Aveva deciso di rientrare nel Sogno, in quel Non-Tempo in cui era stato prima di nascere, assaporandolo non più come piccolo Seme, ma come Albero già completo.
Immerso nel Non-Tempo, profondamente addentrato nella sua Meditazione nel Buio della Terra, non si accorgeva della Luce che ogni giorno diminuiva, e annunciava il Sonno per ciascuno: l’Autunno era giunto, e l’Arboscello non lo sapeva. Sentiva il suo Corpo rallentare i Ritmi, come di Notte, e pensò che questo fosse molto strano, ma nel Sogno una Notte sembrava durare molto più del normale, e liquidò la strana sensazione come uno scherzo del Tempo.

In quella Calma lunghissima, l’Arboscello fece il più strano e profondo dei Sogni, e vide le proprie Foglie ingiallirsi e imbrunirsi lentamente, come se il loro colore stingesse a poco a poco, e l’Acqua le abbandonasse per rifugiarsi in basso, nel profondo del Tronco sicuro e delle Radici salde e ancora operose.
Eppure, come aveva già scoperto, le Foglie non lo definivano: esse cambiavano, ma lui si sentiva sempre lo stesso, non senza stupirsi di quel fenomeno mai sperimentato prima.

Ancora più stupefacente fu quando una delle Foglie, tremando leggermente a un refolo di Vento, decise di staccarsi dal Ramo più alto; non fu come la Foglia che aveva perso tempo addietro durante la Tempesta, che era stata strappata e costretta a lasciare il suo Ramo; lo fece deliberatamente, per precisa Volontà.

– Dove vai, Piccola Foglia? -, chiese l’Arboscello, convinto di Sognare. Di certo, tutte le sue Foglie erano ancora verdi e succulente.

– È giunto per me il tempo di Cadere – disse pratica lei, spiraleggiando verso il basso con elegante Cura.

– Non sapevo che le Foglie cadessero.

– È il Destino di tutte le Cose-che-Nascono veder finire i propri Giorni, e insegnare alla Vita che nessuno vive per Se Stesso. Come ti ha insegnato un giorno l’Acqua, nulla può vivere senza donare una Contropartita per ciò che ha ricevuto. Io ho ricevuto tramite i tuoi Rami la Linfa che ho riempito di Luce, e ora che il mio compito è finito tu tratterrai quella Luce nelle tue Radici per donarla di nuovo alle prossime Foglie, quando verranno insieme al nuovo Sole.

– Il Sole è sempre lo stesso di sempre -, azzardò l’Arboscello, sorridendo del bizzarro Sogno che stava facendo.

– E allo stesso tempo, cala e cresce come la Luna -, aggiunse criptica la Foglia, che aumentava la velocità delle sue Spirali scendendo verso il terreno.

Improvvisamente, una folata di Vento la spinse lontana, verso la Fonte ai piedi del Nocciolo, e per un istante l’Arboscello pensò di svegliarsi. Era difficile dirle addio.
Poi ricordò di aver deciso di rientrare nel Tempo del Sogno per sapere cosa davvero lo rendesse se stesso, e si rese conto che la Foglia gli aveva dato la migliore delle Lezioni: se nessuno vive per Se Stesso, né è definibile da solo, ciò rimane sono le Relazioni.

– Ce lo disse l’Ape, ricordi? – disse la Foglia che ormai stava per toccare l’Acqua.

Il Cercatore si sentì colmo di Gioia al ricordo del piccolo Insetto dorato, che per primo gli aveva parlato dei Fiori. Le aveva promesso di mostrarle i propri, un giorno, e ora non era sicuro di poterlo fare davvero. Come la Foglia, anche l’Ape si sarebbe dovuta staccare dalla sua Casa e Cadere.

– Il Sole tornerà, e avrai bellissimi Fiori. Non smettere di Sognare -, sussurrò la Foglia prima di toccare l’Acqua e lasciarsi trasportare via con un Brivido.

O, forse, era stata la Voce del Cuore a parlare per tutto il Tempo. L’Arboscello non sapeva dirlo, e continuò a Sognare.

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C’era una volta
nel freddo manto di un Autunno che mutava nell’Inverno, un giovane Albero che riscopriva i Sentieri cangianti del Tempo del Sogno in cui era nato. Immerso nel ritmico Cullare della Stagione del Riposo, dimenticava di essersi affannato per Cercare qualcosa al di fuori di sé, nella prima parte della Vita, e godeva del procedere del Tempo come di una Visione.

Avendo rinunciato ad una ad una alle proprie Foglie, e avendo ricevuto da ognuna di loro una buona Lezione sulla Fine e sull’Inizio, sapeva ormai che il suo Corpo era capace di grandi e diversi Cambiamenti: nonostante crescesse costantemente in altezza e imponenza, il suo Tronco non si allargava sempre allo stesso Ritmo, e le Gemme non esplodevano di Vita negli stessi momenti. Eppure, non poteva dire di essere davvero diverso da Se Stesso, nel profondo Nucleo che sentiva in collegamento con il Cuore: era ancora il curioso Seme che aveva rotto il Guscio per cercare la Vibrazione da cui era stato svegliato all’inizio della sua avventura.

Ma dov’era allora quel Seme?

Come navigando controcorrente su un Fiume tranquillo, approfittando delle pieghe del Tempo morbido ed elastico del Tempo del Sogno, l’Arboscello tornò indietro nella Trama degli eventi, ripercorrendo tutte le proprie esperienza fino agli attimi del suo primo Risveglio.
Rivide la Ghianda che era stato, profondamente immersa nel Silenzio del Sottosuolo, e per la prima volta si chiese come fosse arrivata al centro della Radura. Immerso nella Visione, tornò ancora più indietro nella Trama del Sogno e vide in sprazzi di immagini la Ghianda trasportata per lunghe distanze da un piccolo Scricciolo, che la teneva tra le Zampe come fosse un Tesoro; passata poi nelle Zampe di uno Scoiattolo, era stata trasportata nel Tronco cavo di un Albero, dove aveva dimorato per qualche Tempo, finché era stata trafugata insieme ad altre da un Orso dondolante, dal folto Manto bruno e dalla struttura potente. L’animale l’aveva portata con sé fino alla Radura, dove era caduta al centro perfetto del Cerchio-di-Alberi, sprofondando nel terreno sotto le sue Zampe.

Ripercorrendo la Storia prima della propria Memoria, il Cercatore si accorse che le Relazioni intessute prima del suo emergere alla Coscienza erano state ugualmente importanti per la sua manifestazione. Sia la perseveranza dello Scricciolo, sia la pazienza dello Scoiattolo, e persino la saggezza dell’Orso erano parte della sua esistenza: come gli aveva suggerito la Nuvola nel suo primo giorno da Germoglio, la sua Natura di Albero era in tutto ciò che lo rendeva tale, e non solo nelle Foglie o nei Rami che ora dormivano nei Ricordi.

All’improvviso, l’Arboscello sentì affiorare nel suo campo di Consapevolezza una presenza familiare, solida e consistente, eppure allo stesso Tempo gentile e delicata. L’immagine dell’Orso addormentato nella sua Grotta aleggiò nel Sogno dell’Arboscello, che sentì una Voce profonda echeggiare nei propri Pensieri:

– Sei diventato molto più di quello che potessi sperare. Nel Riposo, hai finalmente visto da dove sei giunto e qual è il Dono che ti è stato fatto: custodire la Memoria delle Vite intessute con la tua, e, con il tempo, di quella di tutta la Foresta, che è il prodotto di tutto ciò che emerge e si dissolve in essa. Continua a Sognare, fratello mio, e quando tornerà a regnare il Calore verrò da te.

L’Arboscello rabbrividì al Freddo pungente che accarezzava i suoi Rami, ma sognò l’abbraccio del Sole che avrebbe accompagnato la promessa dell’Orso.
Il Cuore, e con Lui il suo battito intenso e profumato, era vicinissimo, e sembrava battere all’unisono con l’Arboscello, con la Terra e con gli echi della voce dell’Orso.

– Io sono nella Memoria di ciò che è stato e di ciò che sarà, ma la mia Voce è in Ciò-che-è. Sogna, piccola Ghianda, e diventa il Guardiano che sei sempre stato.

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C’era una volta
un freddo Tempo della Discesa, tinto di colori sbiaditi nel Sogno dell’Arboscello, in cui il Sole restava sempre basso sull’Orizzonte, e raramente spingeva il Coro delle sue innumerevoli Voci verso la Radura nella Foresta. La Luce era sempre bellissima, pensava il Cercatore, mentre i suoi Rami venivano scaldati dai Giorni sfuggenti, ma mancava dell’intensità che aveva avuto nei Giorni in cui era stato Germoglio.

Maestosa oltre le Fronde, a nord della Radura, scorgeva spesso una grande Montagna, su cui poté ammirare un giorno la prima Neve della sua Vita-sopra-la-Terra. Come lui si era Trasformato perdendo le Foglie, così la Montagna aveva perso il suo colore originario, tra il bruno e il grigio, per rivestirsi di una strana coltre candida, abbagliante quando il Sole la sfiorava con una carezza di luce. Ne fu sorpreso e ammirato, e nel Sogno desiderò di poter scoprire il Segreto di quel Cambiamento.
Il massiccio Picco sembrava ancora più imponente sotto il Manto regale, e in un giorno freddo e pungente non perse nulla della propria Grazia, mentre veniva circondato da Nubi lattiginose, dense come quelle che annunciavano Pioggia; ben presto si confusero tanto con il profilo del Monte da nasconderlo alla vista.
Da molti giorni non si vedeva una Tempesta nella Radura, e mentre le Nuvole procedevano a raccogliersi verso Meridione, dove stava la Radura, i Fulmini non si scagliavano sulla Terra, e le masse oscure che li partorivano restavano solo un agitato Ricordo: l’Arboscello non aveva mai ammirato lo spettacolo di un Cielo così candido.

Il primo Fiocco candido cadde volteggiando dal Cielo come aveva fatto la Foglia, apparentemente senza peso e senza consistenza. Si posò leggero su un Ramo della giovane Quercia, che si sorprese di quanta energia vibrasse in quell’inconsistenza, anche tra i veli del Sogno.

– Tu non sei una Goccia-di-Pioggia -, constatò, incuriosita.

Il minuscolo Cristallo dalle forme perfette sembrò brillare mentre la sua pungente Coscienza raggiungeva quella placida e tranquilla dell’Albero.

– Lo sono stato, in un’altra Vita. Il Gelo mi ha trasformato, e non so nemmeno più se sono Acqua, o se sono diventato altro.

– Sei molto diverso dalle Gocce che ho conosciuto -, confermò l’Arboscello. – Non perdevano mai la capacità di Scorrere, mentre tu sei molto più solido; eppure, c’è in te una morbidezza e una forza che esse non hanno mai avuto.

– Sono nato dal Canto che il Grande Ghiaccio sulla Montagna ha rivolto al Sole scaldandosi alla sua pallida Luce. Lassù, c’è l’Acqua più solida che potrai mai conoscere, dura come la Pietra e splendente come se potesse riflettere il Sole per cento e mille volte. Di quel Canto porto con me la capacità di restare Immobile ma di conservare il Movimento necessario a dirsi vivi, e ad essere dovunque sia stato.

Il Cercatore si sentiva molto vicino al Fiocco. Sui suoi Rami, nonostante fosse addormentato come si conviene ad un Albero nel periodo del Grande Sonno, c’erano Gemme piene di Vita che attendevano sospese il momento in cui riprendere a Scorrere e a Creare.

– Anche tu hai cercato nel Sogno l’Essenza dell’Acqua, per compiere il tuo Destino?

– Non ho mai abbandonato il Sogno dell’Acqua: la Cascata e il Grande Ghiaccio sono dentro di me, e con loro ogni forma dell’Acqua in cui sono mutato e muterò. Oggi ti porto il dono della Forma, del Limite che insegna ad essere liberi: solo sperimentando il Ghiaccio, l’Acqua può scorrere pienamente in ogni suo stato. Hai chiesto di conoscere il segreto del Manto della Montagna: io sono quel Manto, e sono la Montagna, e ti porto il loro Sogno.

Il Cercatore sentì un Brivido percorrergli il Tronco: aveva scoperto di essere più del proprio Corpo, quando aveva visto le proprie Foglie cadere, e allo stesso Tempo non avrebbe mai conosciuto la Bellezza se non avesse abbandonato la sicura Innocenza della Ghianda che era stato per abitare il Corpo di un Albero, credendosi separato dal Mondo. Un tempo aveva rimpianto di essere saldamente ancorato al Terreno, e di non potersi muovere liberamente: ora sentiva di poter essere ovunque.
Ora, sapeva che, come il Ghiaccio e la Montagna erano nel Fiocco di Neve, e il Fiocco in loro, così la Foresta era in lui, e lui era nella Foresta.

– Comincia il Viaggio che farai senza muovere un Passo, la Ricerca che farai senza cercare Nulla -, sussurrò il Cuore, che batteva una dolce nenia per il cuore dell’Inverno.

Dal Cielo, Cristalli di Luce volteggiavano verso Terra, portando con sé tutta la Vita di cui erano impregnati.

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C’era una volta,
immerso in un Sogno ai margini del Tempo e dello Spazio, un giovane Albero che osservava la lenta crescita delle proprie Gemme, ancora accarezzate dal Freddo. Anche se sembravano addormentate, l’Albero ne percepiva la Forza e il microscopico Lavoro, a partire da minuscole bozze nel legno esterno del Tronco scuro e rugoso.

Non era ancora il tempo di sostenere la loro Crescita: l’Inverno stendeva ancora il suo Manto sulla Foresta, e la Neve si era posata leggera e gentile sulla Radura in modo sorprendente, coprendo di Silenzio tutto lo Spazio circostante e creando un Tempo di Sospensione a cui l’Arboscello non aveva mai potuto assistere nella sua Vita.
Il suo Sogno continuava Sottoterra, al caldo di cui le Radici approfittavano per accumulare Nutrimento e donare alla Terra i propri prodotti. Sotto il peso della Neve tutto sembrava ancora più attutito, ma sebbene il Sole non riuscisse a dare energia alla superficie, Sottoterra le cose erano molto diverse.
Dalle piccole Gocce, che un Tempo gli avevano donato la spinta a donarsi al Mondo che lo circondava, alle Correnti sotterranee che nessuno esplorava, l’Acqua continuava a Fluire, scavando pazientemente lo Spazio tra Terra e Rocce per trovare nuove vie verso nuove Libertà.

– Vieni con noi -, gli sussurrò un giorno, accarezzando le Radici.

L’Arboscello seguì le piccole Gocce verso il basso, dove una volta si era diretto per seguire il Cuore senza trovarlo. Non era più impaurito come in quel Tempo: ora conosceva la Luce del Sole e molte altre Coscienze, e da molto tempo non si agitava per trovare la Casa del suo Risvegliatore. Sapeva che avrebbe trovato solo nuove Avventure e nuove occasioni di apprendere.
Le Gocce lo accompagnarono molto in basso, lungo Radici che nemmeno ricordava di avere, che si aprivano la Via serpeggiando tra Terra e Rocce sempre più contorte e sconosciute; sempre più in basso l’Acqua scivolava sull’umida superficie delle Radici, e il Cercatore le seguiva incuriosito.

La Radice più profonda si spingeva più in basso delle altre, quella Radice che per prima era nata dalla Ghianda molto tempo prima, e che si era replicata per innumerevoli volte ma aveva continuato ad Esistere e a Scavare, nell’incoscienza dell’attenzione dell’Albero. Le Gocce procedevano veloci, mentre l’Albero seguiva chiedendosi come avesse fatto a non accorgersi di quanto potesse essere così profondo il suo Cammino, e che non sapeva nemmeno più se fosse reale.
Sempre più stretto era il passaggio della Radice che sembrava ridursi al diametro di un’inconsistente raggio di Sole, ma l’Acqua non demordeva, e anche se una morsa attanagliava l’attenzione dell’Arboscello, continuò a seguirle anche aspettandosi di trovare molto presto un muro a bloccare il Cammino.

Dalla Fessura più sottile che potesse immaginare, la Radice si lanciava nel vuoto di una grande Caverna sotterranea, fiocamente illuminata da alcune lame di Luce che penetravano da diverse fenditure simili che si aprivano nella volta.
L’Arboscello lasciò la propria coscienza sulla Fessura, in sospeso. L’ampio spazio della Caverna era meraviglioso: la Luce penetrava come Spade affilatissime, tagliando lo Spazio oscuro, e si gettava verso il basso rimbalzando su uno Specchio d’Acqua calmo e scuro, per aprirsi in morbidi Ventagli che rischiaravano l’ambiente senza dare l’impressione di venire da alcuna parte.

– Benvenuto allo Specchio -, sussurrò una delle Gocce, che si allargava sulla punta della Radice mantenendo la tensione di una sfera perfetta.

– Cos’è questo posto? -, chiese il Cercatore, stupito.

– Lo vedrai -, rispose la Goccia. La tensione della sua membrana diminuì vertiginosamente fino a perdere la presa, e cadde verso l’Acqua scura in una perfetta caduta verticale.

Il Suono del suo Tuffo sembrò riempire lo Spazio della Caverna, e ampi Cerchi esplosero dal punto dell’impatto, sollevando Onde sottili nella superficie liquida perfettamente piatta.

– Lo Specchio ti mostrerà ciò che dovrai sapere -, mormorò il Cuore, cantando con l’Eco del Suono del Tuffo.

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C’era una volta
sulla cima di una grande Caverna sotterranea, l’ultimo appiglio della Coscienza di un Albero-Cercatore, che nel Cuore dell’Inverno esplorava la Foresta e i suoi Misteri, un Tempo irraggiungibili.
Le ultime Onde sollevate dall’impatto della Goccia-di-Acqua che lo aveva portato fino a quel Luogo stavano esaurendo la propria energia nel Lago scuro, che proiettava riflessi danzanti nella volta di Pietra. Gli Echi dell’unico Suono udibile, quello prodotto dalla Goccia nel suo Tuffo, si spensero velocemente, e la Grotta cadde di nuovo nel Silenzio e nella Quiete.

L’Albero sentiva un profondo disagio in quella situazione, appeso alla più profonda delle proprie Radici – o forse alla sua estensione nel suo Sogno, ancora non riusciva a dirlo. Normalmente, avrebbe cercato l’aiuto di qualcuno che potesse aiutarlo a orientarsi, ma sia la Grotta che il Lago erano completamente immobili e Quieti, e non sembravano intenzionati a rompere il Silenzio per nulla al Mondo.
Il Lago, però, aveva un fascino particolare, sia per le Acque scure, di un blu così profondo da sembrare quasi nero, sia per la totale Tranquillità che dimostrava, sia nell’aspetto che nei Suoni. A parte sporadici schiocchi causati dalla caduta di altre Gocce, nessuno scorrere, nessun gorgoglìo lontano, nemmeno il Suono leggero delle Onde, turbavano il Silenzio del luogo: tutto era sospeso, come in paziente Attesa.

L’Albero non poté fare altro che rimanere dov’era, al culmine del proprio Corpo, lasciando perdere il proprio sguardo nelle Acque scure dopo averlo lasciato girovagare per esaminare lo Spazio circostante. Là dove la Goccia poco prima era caduta sollevando leggere increspature, ora l’Acqua era piatta e tranquilla, eppure così viva da attirare lo sguardo in modo irresistibile.
Lentamente, nel colore opaco e impenetrabile sembrò accendersi una flebile Luce, un punto lontano che attirò l’Attenzione dell’Albero; espandendosi sempre di più, il piccolo punto diventò sempre più grande, e si trasformò in un alone di colore azzurro e argenteo, molto simile alla Luce della Luna in una Notte fredda e tersa. La Luce tremolava debolmente, come se pulsasse, e l’Albero si sentì invadere di Pace.
Poi, l’immagine cambiò, e nella Luce comparve una Figura indistinta; il primo particolare che riuscì a mettere a fuoco fu un sottile tentacolo pallido, e impiegò molto tempo per realizzare che stava vedendo il Riflesso della propria Radice al suo culmine. Quando l’ebbe riconosciuta, come se attraverso l’Acqua la Roccia e la Terra potessero diventare trasparenti, gli si mostrò tutto il percorso delle sue Radici, insieme al Tronco stesso e ai Rami tesi verso il Cielo.

Si vedeva Riflesso nel Lago, eppure vedeva molto di più: guardando meglio, si accorse di non avere Radici così vaste da raggiungere quelle di molti Alberi al di fuori della Radura, e di certo non aveva Rami così ampi da metterla quasi totalmente in Ombra. Il Tronco, molto più massiccio e imponente di quello che cresceva oltre la Terra e la Neve, era quello di un Anziano.
Senza comprendere, continuò ad osservare, e iniziò a percepire la Vita sui propri Rami: oltre a Foglie rigogliose, Fiori verdi e d’oro che ancora non conosceva, e Frutti verdi e bruni come era stato prima del Risveglio, c’erano Animali a godere del riparo e della protezione di quel fitto intrico di Legno e Spazio. Zampe e Piume, Code e Ali si contavano a decine ad ogni altezza, e alla base riposavano i Cervi.

Tra quelle Vite che si appoggiavano alla sua, meravigliose da osservare, gli parve anche, per un istante, di vedere una strana Sagoma eretta su due Zampe, dalla strana pelliccia, avvicinarsi al suo Tronco e toccarlo con una Zampa dalle peculiari fattezze.
All’improvviso notò un Manto grigio e due Occhi d’ambra.

– Sarà presto il momento di darti un nuovo Nome, pare -, sussurrò il Guardiano.

– È il mio Futuro, questo? -, chiese l’Albero

– È quello che sei, fuori dal Tempo -, rispose il Gufo, criptico.

L’Albero tacque. Nel Sogno non c’era Tempo, ma sapeva che il suo Corpo era ancora molto lontano dall’essere maestoso come lo vedeva nello Specchio.

È tutto qui, il Segreto è avere una Visione da realizzare -, sussurrò il Cuore.

– Ora, devi solo avere il Coraggio di realizzarla -, aggiunse il Gufo.
Una nuova Goccia si gettò dall’alto della volta, e cancellò la Visione con Onde concentriche. Quando l’Acqua tornò calma, l’Albero stava già riportando la propria Coscienza in superficie, dove avrebbe imparato ad essere Coraggioso.

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C’era una volta,
in una giornata di pallido Sole invernale, un giovane Albero che, dopo lunghe esplorazioni sotterranee, aveva finalmente trovato la propria Visione nelle Acque scure di un Lago sotterraneo.
Si sentiva finalmente Libero dall’Ansia di dover trovare nel Mondo un Luogo più significativo di un altro, e sentiva ormai con sapiente certezza che la Casa del Cuore era ovunque un essere sentisse il suo battito.

Aveva un Sogno da realizzare, e doveva impegnarsi Anima e Corpo per renderlo concreto come la Roccia che stava al centro della Radura da prima che lui nascesse, e splendente come il Sole che aveva accolto per primo la sua uscita dalla Terra come Germoglio.
Voleva crescere per realizzare la Visione di un Albero gigantesco, imponente e forte, che ospitasse la Vita in ogni suo passaggio, e donasse ai Viandanti un fresco Luogo di Riposo. Era profondamente curioso di incontrare lo strano Animale che aveva visto nello Specchio, alto su due Zampe, che ne portava una verso il suo Tronco con sguardo raggiante.

Cercò di innalzarsi, come aveva fatto un Tempo, ma sentiva il suo Corpo resistere all’impulso. Il suo Sogno era forse finito, ma il Sonno continuava ancora per molte parti della Foresta: il Freddo e la Neve erano ancora padroni dell’Inverno, e il pallido Sole non riusciva a produrre tanto calore da svegliare le Gemme assopite.
Rise tra sé, l’Arboscello, e benedisse la propria Impazienza: senza di lei, non sarebbe andato mai tanto lontano da scoprire se stesso ai margini stessi della propria Coscienza.

Un frullio d’Ali lo distrasse dal suo divertimento, e su uno dei Rami nodosi vide un piccolo Uccello, dalle forme tonde e dal becco sottile, dal manto di piume bruno come la terra umida, striato dell’oro delle Albe autunnali.
Il piccolo Uccello, dalle movenze scattanti e veloci, era quanto di più lontano dalla solida presenza che in quel momento si sentiva di costituire l’Albero, ma non poteva fare a meno di sentirsene affascinato.

– Ti ricordo dai miei Sogni: tu portasti la Ghianda-che-sono-stato per una parte del suo percorso. Come il Gufo e lOrso, devi essere un Guardiano di questa Foresta. Sei molto diverso dagli altri che ho conosciuto -, disse.

L’Uccello non rispose, ma continuò a saltellare da un punto all’altro del Ramo, facendo saettare lo sguardo da una parte all’altra. Sembrava in attesa di qualcosa.
D’improvviso, si immobilizzò. C’era una strana tensione nell’Aria, e l’Albero sentì che stava per succedere qualcosa di molto Sacro, e molto Misterioso. Il torace dell’Uccello si gonfiò, e aperta la bocca cominciò a Cantare, tra sibili e ciangottii rapidissimi, e acuti di meravigliosa lucentezza. Tutto il suo Canto sorvolava gli Alberi e risplendeva nel Silenzio della Foresta addormentata, penetrando nelle Fronde e nelle Radici, come esultando per una Rinascita che ancora si perdeva nel Mondo oltre il Tempo. Anche la Neve sembrò farsi più luminosa e vivace: da un momento all’altro, avrebbe potuto cominciare a sciogliersi. L’Arboscello vibrava profondamente, e in quella Voce d’argento gli parve di sentire Echi di ciò che un Tempo aveva conosciuto, e che non gli riusciva di Ricordare.
Il Sole, basso nel Cielo rispetto a come era stato nel suo splendore, ritrovò un po’ del suo nerbo, e si svegliò dopo un lungo Sonno.

– Bentornato, piccolo Scricciolo -, mormorò da lontano la Voce-Arcobaleno. – È già tornato il Tempo di Mezzo Inverno?

– Sì, Signore -, rispose il piccolo volatile – i Guardiani mi mandano a dirti che l’Ora è giunta. La Lunga Notte è finita, e il tuo Trono risplenderà nel Cielo.

Per tutta risposta, il Sole diede un Bagliore impercettibile, ma sembrò che quel guizzo potesse illuminare da solo tutta la Foresta per molte notti e molti giorni: qualcosa era rinato.
L’Albero assisteva stordito e spaesato al dialogo e agli eventi, senza sapere, ma intuendo profondamente che la sua Visione era venuta in un Giorno speciale.

– Passerà del Tempo prima che tu possa rivedere questo Giorno, Amico mio -, disse lo Scricciolo, rivolgendosi a lui. – Ma non temere, lo rivedrai a lungo.

Poi, dopo una pausa che per lui poteva sembrare molto significativa, aggiunse:

– Sì, sono io ad averti portato come Ghianda dalle Fronde del tuo Albero-Madre, finché ti diedi in custodia allo Scoiattolo. Ho Cantato per te al tuo Inizio, come oggi ho fatto per il Sole nel Cielo.

L’Albero sentì schiudersi il Ricordo che non aveva potuto recuperare, e avvertì il Potere dello Scricciolo: dare alle Cose il loro Inizio e la Luce. Seppe che anche quello era per lui un nuovo Inizio.

– Sembra che ti meriti un nuovo Nome, dopo la visita allo Specchio -, confermò lo Scricciolo. – Pare che le tue Fronde faranno da Volta a molti Cieli, e da sostegno a molti nel loro Viaggio. Se così ti piacerà, da oggi in poi sarai Protettore-di-Sogni.

Senza aspettare la risposta, lo Scricciolo volò via, ondeggiando nell’Aria con scatti fulminei.

– Crescerai per onorare il tuo nuovo Nome, ne sono sicuro -, sorrise il Cuore.

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C’era una volta
un Albero che era stato Cercatore e ora era Protettore-di-Sogni, ma ancora non conosceva altro Sogno oltre al proprio.
Quando il Gufo gli aveva dato il nome di Cercatore, aveva Cercato secondo le sue indicazioni la Saggezza di quanti abitavano intorno a lui, perché lo potessero guidare: il percorso lo aveva portato a vedere il proprio Riflesso nello Specchio-sotto-la-Terra, da cui aveva scoperto di essere destinato a ospitare molte Vite intorno a sé, e lo Scricciolo lo aveva chiamato Protettore-di-Sogni.

L’Inverno gli aveva fatto grandi Doni, indubbiamente, ma a quelli aveva aggiunto molte Domande a cui la giovane Quercia non sapeva rispondere; il Freddo e la Neve ormai solidificata erano ancora forti e presenti nella Radura, e il suo desiderio di crescere per realizzare nel Corpo il Riflesso che aveva visto sembrava lontanissimo dal realizzarsi. La solida armatura di Ghiaccio che ricopriva ancora i suoi Rami era lasciava poco spazio alle lente espansioni delle Gemme, che stavano profondamente ritirate nel Legno, invisibili se non nel Sogno di un Futuro più caldo e clemente.

Da quando lo Scricciolo aveva cantato, però, il Sole iniziava lentamente a farsi più caldo, e la sua Voce riusciva a volte a raggiungere i Rami più alti.
Una mattina, il Cielo azzurro scuro era perfettamente immobile, e il Freddo si sollevò per un momento dalla Terra, lasciando che il Calore avvolgesse la Radura come una Promessa. Il Protettore-di-Sogni si lasciò attraversare dalla Luce, che sembrava tornata a un vigore sconosciuto da molto Tempo, e sentì nelle profondità del proprio Tronco la Linfa scorrere più liberamente.

Scrollandosi di dosso la forzata Quiete che la Neve aveva imposto trasformandosi in Ghiaccio, chiamò il Sole.

– Perché hai lasciato la Radura nel Gelo, Signore-del-Cielo?

– Non l’ho fatto, Figlio mio. Nessuno può Brillare sempre alla stessa intensità, e così la Terra ha bisogno di ristorarsi dopo il grande Crescere delle Stagioni in cui sei nato, e si deve allontanare dal mio Calore, ritirandosi nel Sonno per lasciare al proprio Corpo la possibilità di generare nuovi Sogni da realizzare.
La Neve vi ha portato il Riposo, e il Ghiaccio il Sonno, affinché poteste Sognare con vostra Madre. Tu, se non erro, hai fatto un Sogno molto importante.

– Sì -, ammise l’Albero, – ma ora ho bisogno di crescere, per realizzarlo.

– Pazienza -, sussurrò la Voce-Multicolore, con note divertite. – Rallegrati, il Riposo è quasi finito: nella Radura tornerà la Primavera. Guarda i tuoi Rami: già preannunciano il momento.

L’Albero portò l’attenzione ai Rami più alti, che indisturbati dalla sua preoccupazione si erano estesi verso la Luce, e ora lasciavano che il Calore ammorbidisse il Ghiaccio in Acqua stillante. Piccole Perle cristalline cominciarono a scorrere lentamente sul Legno, e a cadere verso Terra, dove la spessa coltre bianca le accoglieva con Suoni ancora secchi, ma profondi e gioiosi.
Il Suono destò nell’Albero il Ricordo della Pioggia, e delle Foglie danzanti a ogni tocco; si sentì Felice e pieno di Gioia nel ritrovare quelle Sensazioni perdute. Anche se le Foglie non erano più con lui, l’Acqua ritornava a Cantare, e questo lo confortava.

– Nel Tempo-del-Gelo ho conservato le mie energie, per ritrovarle nel giusto Momento – mormorò Lei. – Senza di Esso, non avrei protetto la Terra sotto forma di Neve, né creato nel Ghiaccio una riserva per le Fonti, i Fiumi, i Laghi e i Mari.

Anche l’Inverno ha la sua Lezione, pensò l’Albero.

– Il Giusto Tempo viene per tutte le Cose: il Segreto è saper Attendere senza Aspettare -, sussurrò l’Invisibile, battendo il Ritmo delle Gocce.  

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C’era una volta
un Inverno alla fine del suo corso, che scivolava nel brulicante Silenzio pieno di improvvisi rumori di chi si sveglia lentamente dopo un lungo Sonno, dimenandosi senza apparente controllo e senza continuità nei gesti e nei suoni proposti dal Corpo alla Coscienza.

La Foresta vibrava debolmente in brevi intervalli, nel Canto degli Uccelli che osavano più gioia nel saluto all’Alba, e nel gorgogliare dell’Acqua che riprendeva lentamente la sua abituale energia, dopo molto Sussurrare sotto la coltre di Neve. Eppure, l’alta Montagna a settentrione della Radura non mutava la sua candida Veste, e risplendeva indisturbata ogni volta che il Sole volgeva lo sguardo sulle sue cime.

Raramente gli Animali si avventuravano nella Radura, preferendo le Tane e i sentieri tra gli Alberi, ma quei pochi che la visitavano portavano all’Albero che viveva nel suo centro notizie dei movimenti al di là del Cerchio-di-Alberi che costituiva tutto il Mondo che potesse percepire direttamente.
Sembrava che il Grande Fiume a oriente si stesse lentamente riappropriando del suo corso dopo molti mesi passati a scavare sotto spesse coltri di Ghiaccio; lo confermava lo Stagno, che di nuovo cominciava a fare da specchio alle Nubi e alle Stelle giocando con la Luce e con i colori in modo da restituire immagini sempre nuove, anche se più impermanenti.

Protettore-di-Sogni, l’Albero a centro della Radura, si godeva il rinnovato calore del Sole con una certa cauta impazienza: sapeva che presto sarebbe giunta l’Ora di Crescere di nuovo, e sentiva sotto le Radici il fermento della Terra, molto più sveglia del Mondo-di-Mezzo sonnecchiante e del Cielo ancora freddo e distante.
Non poté fare a meno, come aveva fatto lungo il Grande Gelo, di guardare alle piccole Bolle quiescenti che attendevano sui Rami di poter esplodere alla Vita e consegnare all’Estate nuove Foglie e, forse, i primi Fiori.
C’era fermento in quelle Bolle sotto la Corteccia, come nei Semi che attendevano sotto Terra: una di esse, già più Sveglia delle altre, iniziava timidamente a spingere il proprio Corpo Primordiale verso l’Aria, cercando il Sole come una volta il Germoglio aveva fatto da sotto Terra.

– Sei pronta a dare Vita a nuovi Rami e nuove Foglie, piccola mia? -, chiese l’Albero.

Sentì la minuscola Coscienza toccare la propria, e un assenso silenzioso gli arrivò come un Sorriso. La Gemma vibrava come se potesse esplodere da un momento all’altro, e come se non aspettasse altro che poter finalmente celebrare la propria Nascita.
Seguendone attentamente il Risveglio, Protettore-di-Sogni si rese conto che la Terra, il Cuore, il Cielo, il Sole e l’intera Foresta avevano fatto la stessa cosa con lui, quando si era Svegliato come Seme e aveva proseguito il proprio viaggio verso il Germoglio, l’Arboscello e ora l’Albero. Lui era per la Gemma ciò che Loro erano stati per lui: un Guardiano, un Custode Innamorato che sosteneva istante dopo istante lo sbocciare della piccola nuova Vita.

– Ecco il primo Sogno che Custodirai, come io ho Custodito il tuo -, sussurrò la Madre-di-Tutti.

Il Cuore batteva più vicino che mai, nella Vita stessa che la Gemma prometteva alla Foresta.

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C’era una volta
in una mattina di fine Inverno, una Radura immersa nella quiete. Un’Alba sorniona brillava all’orizzonte, ma ancora poche Voci si levavano in saluto, e nell’Aria c’erano le sfumature dell’Acqua: la Nebbia densa e profumata di Terra, la temperatura del Ghiaccio che ormai si trasformava in Gocce stillanti, e la placida Voce della Fonte, che era ormai tornata a mormorare costantemente i suoi Canti alle Fronde del Vecchio Nocciolo.

Intento nella costante Amorevole Osservazione delle Foglie Future, l’Albero che era stato chiamato Protettore-di-Sogni era come affascinato dal proprio stesso Incantesimo, e godeva con ogni sua Fibra il lento Cammino che avrebbe portato alla nuova Creazione.
Serpeggiando nel mare di Neve, punteggiato da isolotti di Verde Speranza, un leggero refolo di Vento accarezzò la Terra umida, si arrampicò sul Tronco e solleticò i Rami ondeggianti. Un brivido di Piacere seguì il suo tocco delicato, distogliendo per un istante l’attenzione dell’Albero dalle Gemme in costante espansione.

– Che meravigliosa sensazione -, sospirò. – Non credo di averne mai provata una simile.

– È un peccato, giovane Guardiano -, sospirò il Vento. – Mi vuoi dire di non aver mai provato il Piacere di una Carezza?

L’Albero si immerse nei ricordi. Per primo era stato il Sole ad avvolgere il suo giovane Corpo con il proprio calore, ma si era trattato di un Abbraccio profondo ed elettrizzante; poi, la Nebbia lo aveva avvolto in un Abbraccio più denso, ma troppo umido per definirlo piacevole. La Pioggia picchiettava in modo piacevole sul suo Legno, ma scorreva via senza dargli l’impressione di volersi soffermare. Gli Animali, i Cervi, il Gufo e lo Scricciolo, lo avevano sempre toccato con Gentilezza, ma mai con così evidente affetto. Il Vento di certo era passato più volte tra i suoi Rami, ma mai soffermandosi così sulle Foglie.

– Di tutti coloro che si sono posati su di me -, rispose dopo molti istanti di Silenzio, – nessuno aveva mai intenzionalmente sfiorato la mia Corteccia con tanta Gioia e Spensieratezza. Nemmeno tu, in tutte le Stagioni in cui sei mutato nella Foresta.

Il Vento sembrò farsi più agile, passando tra Ramoscelli ancora molto esili.

– Forse sei tu a non averlo mai notato. Io Accarezzo sempre tutto ciò che Tocco, è il mio modo di portare con me tutti quelli che ho incontrato. Anche quando Soffio in modo Impetuoso, porto con me qualcosa di ciò che Tocco, per traferirlo ad Altri, in Altri Luoghi e Tempi.

– Potresti portare un messaggio per me, Fratello Vento? -, chiese l’Albero, quasi stupendosi di ciò che stava dicendo.

– Senza dubbio, Amico mio. Cosa vuoi che riferisca, e a chi?

– Mi hanno detto che devo Proteggere i Sogni della Foresta. Fino ad ora non avevo idea di cosa volesse dire -, disse l’Albero, e sentì nascere una nuova Forza dentro di sé. – Di’ all’intera Foresta, ad ogni Ramo, Tronco, Foglia e Radice, e a ogni Coda, Becco, Zampa e Artiglio che voglio conoscere i loro Nomi, e le loro Anime: se vorranno, potranno affidarti un Canto da insegnarmi, affinché io Ricordi tutti i Sogni di coloro che sono vissuti tra queste Fronde, e possa Cantarli al Sole, al Cielo, alla Luna e alla Terra. Lo farai per me?

– È un bellissimo proposito quello che ti guida, giovane Guardiano. Non temere, lo farò. Ora, addio! – esclamò il Vento, e fuggì lontano, oltre le cime della Radura.

Il Cuore era, come sempre, colmo di Luce.

– Hai stabilito la tua Missione. Sarai un Custode ammirevole, e quando verrà il Momento, qualcuno Altro imparerà i tuoi Canti.

Lontano, il Vento già spargeva il Messaggio a tutti gli Abitanti della Foresta.

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C’era una volta
in una Foresta che si svegliava dopo il Lungo Sonno, un Albero dal giovane Corpo che apprendeva ad essere un Custode-della-Foresta.
Si era alleato con il Vento, viaggiatore instancabile, per raccogliere la Memoria di tutti gli Esseri che abitavano la Foresta: i loro Canti viaggiavano con lui di giorno in giorno, di Rami alle Ali, dalle Foglie agli Artigli, e tornavano all’Albero per essere Ricordati e Risonati. La Radura conosceva così tutta la Foresta, e ne conservava l’Essenza: mai il grande Bosco era stato così pieno di Vita, da quando il giovane Protettore-di-Sogni aveva cominciato il suo Cammino, e cresceva in Forza e Presenza di giorno in giorno, di ora in ora.

Fu in un mattino dal placido tepore, ormai annuncio della fine dell’Inverno, che l’Albero dovette abbassare il suo sguardo verso il prato a poca distanza dal suo Tronco, dove ormai la Neve lasciava il posto ad un’Erba dolce, fresca e giovane. Un Verde dall’intensa leggerezza prendeva sempre più il sopravvento sul Bianco della Neve, ma per un momento all’Albero parve di vedere un numero imprecisato di nuovi Fiocchi di Neve sul prato. Era molto strano: non c’erano Nuvole nel Cielo azzurro, e l’Albero non aveva sentito il pungente Tocco del freddo che aveva imparato a conoscere.
Osservando con più attenzione, si rese conto che non erano Fiocchi di Neve sull’Erba, ma piccole Piante dalle Foglie molto strane, bianchissime e delicate.

– Hai Foglie molto particolari, piccolo Parente -, osservò, incuriosito, parlando con la Piantina più vicina al suo Tronco.

– Perché non sono Foglie, buon Guardiano -, disse quella, con Voce graziosa.

– E cosa sono?

– Sono Petali, grande Albero, i Petali del mio Fiore.

– Non ho mai conosciuto un Fiore che non fosse su un Albero molto più grande, prima d’ora.

Un alito di Vento fece ondeggiare il minuscolo Fiore candido, e con lui tutti i suoi simili, facendoli ondeggiare in una Danza delicata.

– Un Fiore è un Fiore, grande Albero, quale che sia il Ramo che lo sorregge e lo nutre. Ci sono Fiori che vivono soli, e Fiori che vivono in grandi gruppi sugli Alberi e le Piante più grandi.

– Ammiro molto i vostri bianchi Petali. È un colore che ho visto indossare solo dalla Neve, e dalle Nuvole più belle -, disse l’Albero, ammirato.

– È il nostro Dono alla Foresta, grande Essere. Nasciamo per primi dopo il Grande Freddo, e tanto grande è la nostra Gioia nel vedere il Sole che il nostro Fiore sboccia per primo, ma ricorda ancora il Manto che si stende nel pieno del Lungo Sonno, e ne porta il Colore. Fratelli dai colori più sgargianti seguiranno il nostro appassire, ma solo noi annunciamo la fine dell’Inverno.

– Conoscete molto bene la vostra Missione. Io ho atteso molti Mesi prima che mi fosse svelata.

– Tu avrai una lunga Vita, Guardiano, e sarai Custode di molte Storie. Noi siamo destinati a una storia più breve, e il nostro Compito è Testimoniare con ciò che abbiamo: uno Stelo esile ma energico, e una Corona di Luce che mantiene vivo il candore della Neve che si scioglie. Con essi, portiamo a tutti un Insegnamento: nel Freddo e nel Buio dell’Inverno, dopo essersi Purificata nel Silenzio, la Luce torna sempre con una Scintilla che Brilla più del Sole, come all’Alba dopo il momento più buio della Notte.

L’Albero ascoltava incantato, mentre ondeggiava alla pallida Brezza che riportava nuovi Canti alla Radura. Il piccolo Fiore era molto più Saggio di lui.

– Così fa il mio battito. Sostiene la Danza di Tutti, anche quando sembra finito il Canto e il Silenzio stende il suo Manto sulle cose -, sussurrò il Cuore.

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C’era una volta
un pallido inizio di Primavera, ancora incerto e tremolante nelle Mattine pungenti e nei Tramonti pieni di languore. Echi dell’Inverno ancora punteggiavano la Radura al centro della Foresta: mentre i primi Fiori, capitanati dal Bucaneve, osavano mostrare i loro sottili Steli nell’Erba già lucente, ancora resistevano al calore del Sole in costante crescita barlumi di Neve abbarbicati sui Tronchi e sui Sassi. La Brina, al mattino, scivolava sui prati a ricordare la spessa coltre di Neve che aveva silenziato la Foresta, intirizzendo i giovani Germogli e assonnando gli Alberi e gli Animali.

In una di quelle Mattine, con il Sole ancora tiepido sull’Orizzonte, capitò nella Radura una Volpe, che girovagava in cerca di un Luogo dove riposarsi dopo la caccia mattutina. Noncurante del freddo, già sazia, esplorò con calma l’ampio spazio e scelse di accovacciarsi ai piedi dell’Albero che cresceva al centro del Cerchio, accanto a una pietra massiccia che le avrebbe fatto da riparo.

Sdraiandosi, arrotolata su se stessa, la Volpe si guardò intorno per alcuni istanti, e, verificando di essere sola, chiuse gli occhi e iniziò a dormire.

L’Albero non aveva mai incontrato una Volpe, e la osservava in Silenzio, studiandone le forme sinuose ed eleganti. Sapeva dai Canti degli Uccelli che erano Predatori molto astuti, e dai piccoli Animali della Terra che sapevano scivolare quasi inosservate alle spalle della più attenta e veloce delle prede.

Non provava alcun fastidio nell’avere un così abile Cacciatore appisolato sotto di sé: nella Foresta, ognuno faceva ciò che prevedeva il proprio Canto, e i Cacciatori non provavano alcun senso di superiorità nei confronti delle Prede; semplicemente, seguivano l’Ordine che era stato predisposto.
Il Protettore-di-Sogni, perciò, era curioso di conoscere quale Saggezza portasse con sé la Volpe, così distante dal suo modo di essere, e di vivere. Per chi vive trasformando la Luce in Cibo e Aria pulita può essere difficile comprendere lo sforzo di chi deve uccidere per vivere.

Senza volerla svegliare, attese che la Volpe finisse il suo riposo, e che si fosse ben destata prima di attirare la sua attenzione.

– Benvenuta nella mia dimora, cara Volpe. È un piacere conoscere qualcuno della tua Specie; se me lo permetti, vorrei farti una domanda.

La Volpe sembrò considerare con cura la richiesta dell’Albero: socchiuse gli occhi verso il Tronco, e osservò molto attentamente tutta la sua estensione, fino al Ramo più alto di tutti, che le fece estendere il collo fino a farla assomigliare a una lunga freccia fulva.
L’Albero si sentiva a disagio, ma cercò di darle tutto il Tempo che le serviva. Alla fine, non poté resistere allo sguardo concentrato dell’Animale, e parlò:

– Perché non rispondi?

La Volpe parve sogghignare; socchiudendo ancora gli occhi dal taglio sottile, si scrollò da capo a piedi e tornò a sedersi compostamente.

– È alquanto fastidioso essere osservati a lungo da Occhi che non sanno nascondersi, vero? -, chiese, con voce dolce e melliflua.

L’Albero sentì un brivido nel Tronco, e per la prima volta nella sua Vita provò un senso di imbarazzo.

– Non credevo di averti disturbata.

– Oh, Amico mio, ci vuole molto di più per disturbarmi. Sono decisamente molto poco impressionabile -, disse, e fece una lunga pausa. Poi, dopo aver sbattuto con misurata cura le palpebre, riprese: – Risponderò volentieri alla tua domanda.

– Avevo intenzione di chiederti quale fosse la tua Saggezza, ma inizio a comprenderne gli effetti -, ribatté l’Albero, godendosi uno strano nuovo sorriso, che aveva il sapore di una conquista da tempo sperata.

– Dici bene, giovane Custode della Foresta. La capacità di Osservare senza farsi notare, e quella di tenere gli Occhi ben puntati sul proprio Obiettivo, trovando sempre nuovi modi di avvicinarcisi con Perizia, sono Abilità che tutti i Cacciatori conoscono, ma che io padroneggio con una certa Maestria. Altri si affidano alla Forza, o al Numero se vivono in branco: io sono piccola e non molto forte, e l’Intelligenza è la mia forza più grande -, disse, e tacque per qualche istante, leccandosi una zampa con attenzione. – Se me lo permetti, vorrei essere io a farti una domanda, ora -, aggiunse, tornando a guardare l’Albero.

– Ma certo. Cosa vuoi sapere?

– A cosa può mai servire la mia Abilità a un Albero come te, una Quercia imponente che crescerà ben oltre le Vite di molti di quelli che oggi camminano in questa Foresta?

– Ho compreso solo parlando con te di avere grande necessità di Pazienza per realizzare la mia Missione senza disturbare la Vita di coloro che mi circondano. Il mio Compito è di Raccogliere e Conservare i Canti degli Esseri che abitano questo Luogo: il tuo Consiglio mi è molto prezioso per imparare a Osservare senza intromettermi nelle loro Vite, e lasciare che esse scorrano come è stabilito, in piena Libertà.

– Sono Felice di esserti stata utile. Ti manderò un caro Amico dal manto color della Notte, che saprà essere partecipe della tua Missione. Addio, cara Quercia -, disse con allegria, e si allontanò, Agile e Veloce come era arrivata nella Radura.

Il Cuore sorrise alla Quercia: conosceva immensamente il valore della Pazienza nell’Osservare, ed era profondamente fiero dell’Albero che la stava imparando.

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C’era una volta
un giorno di morbida Pioggia, che riempiva di dolci ticchettii il suolo della Foresta. Era arrivato con grazia, come tutte le piogge primaverili, e si era adagiato silenzioso sulla Foresta ancora addormentata. Il Sole aveva rischiarato facilmente la morbida coltre di Nubi, e Giocava ad attraversare il Vapore e le Gocce in caduta con Dardi dorati.

Incantato dallo spettacolo, Protettore-di-Sogni stava con i Rami tesi verso il Cielo, ondeggiando tranquillo al ritmo incessante e variopinto delle Gocce che abbracciavano il terreno. Un Suono in particolare lo interessava quel giorno, e si cimentava a riconoscerlo tra gli altri che gli si avvolgevano intorno:  quando le Gocce incontravano l’Acqua della Fonte, già gorgogliante, si creava una tale varietà di Canti da confonderlo e ammaliarlo al tempo stesso. Sembrava che il Vecchio Nocciolo fosse del suo stesso avviso, perché sembrava ancora più assorto del solito nella sua contemplazione.

Sembrava che il Canto della Fonte e della Pioggia raccontasse di Terre e Acque lontane, perfino più lontane della Foresta stessa, e forse mai raggiunte dai suoi Abitanti. Tra loro avvinghiavano le Voci in Melodie che parlavano di grandi distese dove non c’erano Fiumi, Stagni, né Fonti, e che la Pioggia visitava solo di rado, incontrando Terreni Sabbiosi e immenso Calore. C’erano poi Luoghi lontanissimi dove la Pioggia non poteva andare, perché in tutto il Corso del Sole solo la Neve poteva cadere dal Cielo, e incontrava solo Ghiaccio che non Scorreva da Tempi al di là della Memoria.

Ma ciò che affascinava di più il Protettore-di-Sogni era un Luogo in cui sia la Pioggia che la Fonte ricordavano di essere state, e di cui Cantavano con Nostalgia. Un Luogo dove non c’era Terra, dove nessun Albero poteva Attecchire e Vivere, e solo alcuni strani Animali riuscivano a vivere.
L’Acqua-del-Cielo e l’Acqua-della-Terra raccontavano di quel Luogo, chiamato Mare, in cui tutte le Acque Nascevano e Finivano, e l’Albero ne rimaneva sempre più sconcertato.

– Come può esserci un Luogo in cui non ci sia la Madre-di-Tutti? -, chiese infine, senza potersi trattenere. – E come può essere, come dite, un Luogo di Bellezza e Beatitudine, se non può esserci la Vita?

– Dimentichi che senza Acqua nessun Essere che vive sulla Terra può Crescere e Prosperare, giovane Guardiano -, gli disse la Fonte, interrompendo per alcuni istanti il suo Canto, ma continuando a serbare la struggente Melodia nella liquida Voce.

– Il Mare è pieno di Vite molto diverse da quelle che tu conosci, ma altrettanto Ricche e Meravigliose -, aggiunse la Pioggia, continuando a picchiettare leggermente su tutto ciò che incontrava. – Come tutte le Acque, anche io vengo dal suo Moto Incessante, dove il Calore del Sole trasforma le Onde in Vapore e mi trasporta nel Cielo per donarmi di nuovo alla Terra al momento opportuno.

– Ditemi di più -, chiese la Quercia, che oscillava tra il Disgusto per un Luogo in cui non si potessero affondare Radici, e la Curiosità di conoscere una Bellezza che non aveva creduto possibile.

– Il Regno-della-Luna, lo chiamiamo -, rispose la Fonte, – poiché essa governa il suo Respiro, e lo fa Crescere o Calare con i suoi Cicli, gli stessi Cicli che governano il Moto della tua Linfa.

L’Albero non rispose: ormai da Tempo conosceva i Mutamenti dei Flussi all’interno del proprio Corpo in Relazione a quelli della Luna nel Cielo. Anche se meno evidenti di quelli imposti dal Sole nel suo Corso, erano altrettanto importanti e determinanti nella Vita di una Pianta.
Se il Mare rispondeva alle stesse Forze di cui l’intera Foresta beneficava, non poteva essere un posto tanto brutto.

– Voglio farmi Custode anche del canto del Mare. Potete cantarlo per me? -, chiese, con grande Tenerezza.

Le due Acque ritornarono a Cantare con profonda Felicità, e nei Suoni delle Gocce e delle Onde all’Albero parve di sentire Echeggiare immense Profondità, Luoghi in cui il Sole era più debole della Luna, eppure una Vita Rigogliosa ed Elegante prosperava e si avvicendava. Sentì il Ricordo del Canto di Esseri dalla pelle d’Argento, sublimi per la loro complessità e per gli Spazi che esploravano; sentì la Forza Tranquilla delle Masse Oceaniche, che scavavano e modellavano la Terra con Pazienza infinita; e sentì gli Echi del Respiro delle Onde, che sembrava risalire dalle Profondità dell’Universo, dove il Cuore batteva il suo Ritmo, e abbracciare tutti gli Esseri fino al Cielo e oltre il Sole.
Quando il Canto finì, l’Albero si sentì pieno di Gratitudine per la Fonte di ogni Acqua.

– Anch’io sono Figlio del Mare: senza la Madre-di-tutte-le-Acque, non sarei mai uscito dal mio Seme, né avrei potuto Crescere come Germoglio fino a incontrare il Cielo -, disse, riconoscendo una nuova Relazione nella sua Rete. – Custodirò il vostro Canto come uno dei più Preziosi.

L’Acqua-del-Cielo e l’Acqua-della-Terra scrosciarono con Gioia, e seppero che il Protettore-di-Sogni non avrebbe più visto alcuna differenza in tutte le Acque che avrebbe incontrato.

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C’era una volta
nel tepore di un pomeriggio primaverile, un pallido Tramonto che dava i primi segnali nel Cielo altrimenti di una uniforme monotonia azzurra. Le prime striature rosate coloravano l’Orizzonte e le poche Nuvole che osavano interrompere la perfetta continuità della Volta cerulea, specchiata con immancabile Grazia e Accuratezza dallo Stagno ai margini della Radura.

A Sud, nella direzione del Volo autunnale dell’Anatra, cresceva un Sorbo di modeste dimensioni, ma già molto Anziano, che rivaleggiava in Saggezza con il Nocciolo. Stava molto spesso in Silenzio, rivolto ai suoi pensieri, e rispetto ad altri Alberi del Cerchio era decisamente più burbero e scontroso; non lesinava mai, però, i propri Consigli a chi chiedeva Aiuto e Protezione, e tra gli Abitanti della Radura era certamente tra i più combattivi.

In quel Tramonto, già sfumato di arancione sulle tinte rosate ormai benaccette al Cielo, il Sorbo sentì per primo un Canto melodioso e fugace che si avvicinava alla Radura, tracciando il percorso di un Volatile che, evidentemente, non aveva alcuna Paura di essere cacciato, ma Celebrava il proprio essere Vivo con il più chiaro e sfrontato dei Suoni. Quando il Suono fu molto vicino, il Sorbo vide giungere un piccolo Uccello scattante, dalle Ali sottili ma eleganti, con occhi grandi e molto attenti.
Si posò delicato ma risoluto su uno dei Rami, saltellando rapidamente come se cercasse il Luogo esatto in cui fermarsi, ma non riuscisse mai a trovarlo. Le Luci del Tramonto, ormai tinte di colori caldi e rosseggianti, si riflettevano sul suo Manto, completamente Nero, e infiammavano il Becco dal colore solare, avvolgendo anche il Becco sottile, già sgargiante del colore delle Nuvole all’Orizzonte.

– Benvenuto. Quale Vento muove le tue Ali? -, chiese il Sorbo accogliendolo, laconico. Il piccolo Uccello si fermò per alcuni istanti, osservando la Radura con occhi impazienti.

– Ti ringrazio -, rispose l’altro, adeguandosi al tono asciutto. – Ho sentito parlare molto di questa Radura e dei suoi Alberi. Sono qui per incontrare l’Albero che chiamano Protettore-di-Sogni: la Volpe mi ha parlato di Lui e del suo Compito, e sono convinto di poterlo aiutare.

– Il giovane Albero cresce laggiù, al centro della Radura, e come saprai da molti giorni raccoglie instancabile i Canti della Foresta -, rispose il Sorbo ondeggiando pigramente, in contrasto con il Cielo infiammato da colori sanguigni. – È davvero un ottimo Custode -, aggiunse con improvvisa tenerezza.

– Tornerò da te: ora, devo parlare con lui -, disse il Merlo prendendo congedo, e volò verso il centro della Radura.

Senza attendere il permesso dell’Albero, si diresse immediatamente verso il suo Tronco, dove si posò su uno dei Rami principali, già piuttosto robusto. Saltellando per trovare un luogo adatto, attese che l’Albero si accorgesse della sua presenza: sembrava assorto nella contemplazione del Tramonto, e le sue Foglie ondeggiavano morbidamente al suono di un Canto appena sussurrato.
Prima che potesse parlare, il Merlo lo anticipò.

– Mi dicono che tu sei Protettore-di-Sogni, il futuro Custode della Foresta -, disse, senza aspettarsi una risposta. – Io sono il Custode dei Passaggi, e per molto Tempo ho vagato cantando le Soglie del Cielo che muta dal Giorno alla Notte, e poi ancora al Giorno. Il mio compito è custodire la Saggezza degli Spazi Indistinti tra il Cielo, la Terra e il Mare. La Volpe mi ha parlato del tuo Proposito di Custodire i Canti di tutti gli Esseri: ti Donerò i miei, se vorrai, affinché la tua Memoria li conservi e li faccia Vivere.

L’offerta dell’Uccello dal Manto Notturno e dal Becco di Luce era davvero molto generosa. L’Albero non sapeva come ricambiare con un Dono di pari valore, ma ebbe la giusta intuizione:

– Sei davvero molto Generoso nell’offrirmi la tua Amicizia, e un Dono così prezioso. Se vorrai, ti offrirò riparo tra le mie Fronde, dove starai al sicuro e potrai Cantare indisturbato.

– Sei davvero un buon Custode, Amico mio -, rispose il Merlo, – ma ho già deciso dove vivrò in questa Radura, e non sarò io il primo ad abitare tra i tuoi Rami. Al Principio di ogni Notte, e al Nascere di ogni Giorno, verrò da te e Canteremo insieme per il Sole e per la Luna, dal Cuore di questa Foresta. Per ora, Addio -, terminò, e Cantando tornò tra i Rami del Sorbo, dove chiese ed ottenne Ospitalità e Riparo.

Da quel giorno, il Merlo si stabilì nella Radura, e dalle Fronde della Quercia Cantò le Memorie del Giorno, e i Sogni della Notte, mentre il Cuore abbracciava Foglie e Piume e irradiava il suo battito sulla Foresta.

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C’era una volta
una grande Quiete che si era distesa sopra la Foresta; nella Radura, nessun filo d’erba muoveva le sue membra, nessun Vento portava i Canti del Mondo al Protettore-di-Sogni: regnava un innaturale Silenzio, portato da chissà quale Spirito in una Mattina di fresca calura.
Anche il Sole sembrava fermo nel suo corso leggero, e la Luna pallidamente illuminata si avviava verso un Tramonto invisibile.

Le Fronde dell’Albero che dal centro della Radura attendeva il nuovo Movimento erano così immobili da sembrare che la Vita si fosse davvero fermata per alcuni istanti. Il Silenzio era inusuale e totalizzante, e l’Albero si chiedeva cosa lo avesse portato sulle Fronde e sulle Radici; in quell’istante di eterna Attesa non poteva che scorgere una grande Bellezza: gli sembrava infatti di Osservare attraverso uno Specchio tutta la Foresta, dagli Uccelli in Volo, agli Alberi un Tempo Sussurranti, agli Animali che restavano incollati alla Terra.

Improvvisamente, si udì un Fruscio Maestoso che interruppe il Silenzio, e un velocissimo Guizzo ai margini della Radura annunciò l’unico Essere in grado di sfuggire alla Stasi. Nell’Erba già alta è morbida della Primavera punteggiata qua e là i piccoli Fiori, si muoveva una Macchia tra i toni della Terra rossa e dei bruni Sassi delle montagne.
La Macchia si avvicinava velocemente all’Albero, rendendo difficile seguire il corso dei suoi Movimenti. Solo quando fu ormai vicina al Tronco, la Macchia si svegliò per quello che era, arrampicandosi furtivamente sulla Corteccia scura: un piccolo Animale, un roditore per la verità, che si muoveva con piccoli scatti, come se temesse che una maggiore fluidità potesse renderlo più partecipe dello scorrere del tempo.
Quando fu giunto a una buona altezza sul Tronco si fermò, osservandolo, e l’Albero prese la Parola.

– Chi sei tu, che riesci a sconfiggere quest’Immobilità che ha attanagliato la Foresta?

Il piccolo Animale si fermò, e sembrò considerare l’idea di non rispondergli. Poi, con molta cortesia, decise altrimenti:

– Io sono colui che ha Custodito la tua Ghianda nel lungo Sonno, prima che arrivasse qui. Quanto al Tempo, faccio questo effetto a quelli che devono comunicare con me. Come il Gufo, L’Orso, lo Scricciolo, il Merlo e altri sono un Guardiano di questa Foresta e del suo Mistero, che è quello di tutta la Vita.

Il piccolo roditore parlava per enigmi, penso l’Albero, ma volle continuare ad ascoltarlo, notando che alcune delle sue Foglie cominciarono a ondeggiare a un Vento che sembrava sul punto di liberarsi di nuovo e tornare a scorrere

– Ti sei mai chiesto perché sei cresciuto così tanto, quando gli altri Alberi impiegano Anni per raggiungere la tua Altezza e la tua Potenza?
– Non ho mai avuto l’esempio di un Anziano che mi guidasse – ammise l’Albero.

– Lascia che ti mostri -, disse lo Scoiattolo, e l’Albero vide un altro Tempo, come era stato nello Specchio.

Si vide Ghianda, senza consapevolezza di altro che il Sogno, su un Ramo dell’Albero che era stato sua Madre e Padre, in un altro Luogo che quello che conosceva; si vide Cadere e toccare la Terra, dove lo Scoiattolo l’aveva raccolta e portata nella sua Tana, Custodendola per un intero Tempo del Riposo.
Nel tepore della Tana, lo Scoiattolo aveva Raccontato al Seme della Terra e del Cielo, delle Radici e delle Ali, di tutto ciò che la Foresta viveva giorno per giorno, del Gioco della Vita che la sua specie conosceva così bene.
La Ghianda si era nutrita dei suoi Canti, che parlavano di Attività e Riposo, Gioia e Cessazione, e che le avevano fornito Energia oltre misura, finché l’Orso l’aveva Raccolta e portata alla Radura.
Il Ricordo svanì, ancora vivo nella Linfa, e l’Albero si ritrovò a guardare lo Scoiattolo.

– Tu mi hai fatto Crescere più di quello che avrei fatto da solo, non è vero?

– Sono state le Vite di cui ti ho Cantato a farti Crescere, alimentando il tuo Sogno prima che si rivelasse: Crescerai ancora, e a lungo, e quando verrà il tempo sarai un Grande Anziano. Io sarò con te per tutto il Tempo che mi verrà concesso, e se me lo permetterai sarò il primo a vivere sui tuoi Rami.

– Sei stato per me un Custode premuroso. Sarò Felice di ricambiare il tuo Dono -, disse L’Albero.

– Quando una Relazione vive nel Dono reciproco della stessa Vicinanza, l’Amore trova il suo Compimento -, sussurrò il Cuore, il cui Battito scorreva nell’intera Foresta.

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C’era una volta
un piccolo Albero a guardia di una Radura in mezzo alla Foresta. Nonostante le sue dimensioni piuttosto contenute, si beava per primo della Luce dell’Alba da molti Cicli, e per primo sentiva lo sciogliersi della Neve quando il Sole iniziava a farsi più focoso e si alzava dal Buio sempre più presto.
Ormai da tempo immemore custodiva il passaggio dalla Radura verso Oriente, e poteva scorgere in momenti di benedetto Silenzio il Mormorare incessante del Grande Fiume. Nel pieno di una fresca Primavera, che ormai si estendeva delicata su tutta la Foresta lasciando solo pochi scampoli a crogiolarsi nel Ricordo del Grande Sonno, il piccolo Anziano sentì che il Sole era ormai abbastanza forte da sostenere la Vita sui suoi rami, e iniziò a Cantare alle giovani Gemme un Canto di Crescita.

L’Albero al centro della Radura, la giovane Quercia che portava il nome di Protettore-dei-Sogni, ascoltava il Vento accarezzargli le giovani e tenere Foglie, quando si accorse della Cantilena che l’Albero-Custode-dell’Alba stava intonando ormai da qualche Tempo, sempre più udibile e decisa

– Vecchio Mandorlo -, lo chiamò, – il tuo Canto mi mostra una Forza che io cantavo alle mie Foglie la prima volta che le vidi venire alla Luce. Cosa stai cullando tra i tuoi Suoni?

L’Anziano Mandorlo si prese tutto il Tempo di terminare il Canto, e quando fu soddisfatto, e certo di poter lasciare per alcuni istanti le Gemme alla loro Crescita, si rivolse alla Quercia.

– Giovane Parente, sto cantando ai miei Fiori il giorno in cui vedranno il Sole.

– Il Manto dell’Inverno ancora non è scomparso dalla Foresta. Inizi a Cantare molto presto.

– È il Tempo giusto per me -, rispose semplicemente l’Anziano, e riprese a Cantare senza dare al Protettore-di-Sogni modo di chiedere altro.

La Quercia rimase ad Osservarlo, con grande Attenzione e Curiosità. Sembrava ancora troppo Freddo e troppo Buio perché il Fiore di un Albero potesse resistere e mostrare tutta la sua Bellezza al Mondo. Solo il Bucaneve poteva essere così Coraggioso.
Con suo grande stupore, però, le Gemme crescevano veloci, guidate dalla dolce Nenia del Mandorlo, e presto si videro dai rustici Involucri agglomerati esili Petali del colore delle Nubi al sopraggiungere del Sole dietro l’Orizzonte: un Rosa pallido e insieme pervasivo, che spuntava leggero dal verde delle Gemme e sempre di più apriva il proprio estensivo candore alla Luce. Ogni Fiore ne spandeva cinque, gocce di Seta avvolte intorno a un Nucleo irto di morbidi steli ammorbiditi da Polline dorato, ognuno impegnato ad annunciare la Bellezza a una diversa Direzione.

Il Canto del Mandorlo durò molto Tempo, pieno e profondo di Notte e di Giorno, mentre molti altri Alberi ancora sonnecchiavano al tepore di un Sole ancora poco autorevole. Quando tacque, era completamente ricoperto da una coltre di piccoli Gioielli che ricordavano la Bellezza affilata della Neve, e la smorzavano con i colori dell’Alba.
Solo allora, il Mandorlo parlò di nuovo alla Quercia.

– Ho passato molti Cicli a sentirmi deridere dagli altri Alberi perché sono il Primo a salutare il Ritorno del Signore del Cielo, ma ogni volta essi sono stati in errore, e il mio Tempo è venuto secondo ciò che il Cuore ha stabilito per me. Ora, le prime Api in cerca di Polline avranno di che Raccogliere, e la mia Luce si spanderà sulla Radura insieme a quella del Sole che cresce e prospera. Non permettere mai a nessuno di dirti quando è il Tempo di Fiorire, giovane Guardiano: il tuo Tempo è quello giusto, e Sacro.

– Non temere di seguire il tuo Ritmo: è l’unico che puoi Realizzare -, aggiunse il Cuore.

Protettore-di-Sogni seppe in quel momento che il suo Tempo sarebbe arrivato a breve, e cominciò con Gioia a Sognare i propri Fiori.

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C’era una volta
il giorno in cui nella Radura nel Bosco arrivò la sagoma dondolante dell’Orso, da poco uscito dal Letargo.
La Primavera ormai Regnava sulla Foresta, estendendo la durata del Giorno e riscaldando la Notte, in cui agli Animali capitava finalmente di non intirizzirsi al Gelo, e in cui si potevano ammirare le Stelle senza paura di restare senza riparo.

Un Passo dopo l’altro, con misurata noncuranza l’Animale procedeva nella Radura, fermandosi spesso per annusare l’Aria, e salutare i nuovi Fiori che spuntavano tra l’Erba smeraldina. La Quercia non si accorse del suo arrivo silenzioso, poiché era intenta a Sognare Fiori che ancora non aveva prodotto.
Fu lo Scoiattolo, scattante come sua abitudine, a notarlo per primo.

– Caro Fratello, aspettavo con ansia il tuo Ritorno! -, esclamò, destando dal torpore molti Alberi del Cerchio, compreso il Protettore-di-Sogni.

– Cosa non vivi con ansia, tu, piccolo Fratello? -, rispose l’Orso, misurando il ritmo del proprio dire per sottolineare ancora di più il concetto.

– Tutto quello che tu non ti affretti a considerare! -, fu la risposta divertita, mentre il Roditore procedeva verso il Terreno lungo il Tronco dell’Albero, e raggiungeva il Fratello per arrampicarsi sulla sua pelliccia. – Proprio per questo siamo così uniti, noi due! -, aggiunse, affondando il muso nella folta pelliccia.

– Fermo, fermo! -, esclamò l’Orso, divertito. – Siamo venuti per conoscere il buon Protettore-di-Sogni, che mi ha raggiunto nel Sonno del Lungo Inverno.

– È un grande piacere vederti qui, Venerabile Fratello -, intervenne la Quercia, cercando di non suonare troppo solenne. – Perdonami, hai detto “siamo”? -, aggiunse, curiosa.

– Sì, non sono solo.

Dalla pelliccia dell’Orso, poco lontano da dove si trovava lo Scoiattolo, sembrò formarsi una strana Onda di colore scuro, tra il nero e il blu, che lentamente rivelò un Corpo sinuoso, lungo quasi quanto quello del grande Animale, ma privo di altre caratteristiche. Avvolgendosi intorno allo Scoiattolo come una Spirale in movimento, il Corpo misterioso lasciò emergere un Capo dalle forme squadrate, con il Muso triangolare e due Occhi spalancati, che lo fissavano con espressione ambigua. A coronare l’immagine, l’espressione ambigua degli Occhi lasciava l’Albero nel dubbio: cosa voleva fare il Serpente allo Scoiattolo?
La risposta arrivò immediata, mentre lo Scoiattolo si alzava sulle Zampe posteriori ed esclamava:

– Sorella, credi di farmi Paura?

La Lingua biforcuta del Rettile saggiò l’Aria intorno allo Scoiattolo, prima di rispondere.

– Il giorno in cui non avrai più Paura, Fratello, smetterò.

Lo Scoiattolo sembrò imbronciato, ma borbottò una risposta e tacque, avviandosi a tornare sull’Albero che era diventato la sua Casa.

– Ebbene, finalmente conosco questo nuovo Custode -, disse la Serpe, voluttuosa.

– Sta crescendo in Grazia e Forza, proprio come noi, non ti sembra? -, chiese l’Orso, mantenendo i suoi toni pacati come se non gli interessasse la Burla tra lei e lo Scoiattolo. Lei accennò un assenso, ma non disse nulla.

– Perdonatemi, Custodi -, disse l’Albero, – devo chiedervelo: perché viaggiate insieme, voi, che dovreste essere nemici mortali?

– Amico mio, noi tutti siamo Figli della stessa Madre -, rispose la Serpe, mostrando una punta di irritazione. – Come Custodi-della-Foresta, noi rappresentiamo la Grazia e la Forza, il suo Potere in tutte le sue sfaccettature.

– Come la Pioggia e la Tempesta?

– Esattamente -, disse l’Orso. – Ora, permettimi di farti una domanda: come procede la tua Cerca dei Canti?

– Meravigliosamente -, rispose l’Albero con entusiasmo. – Il Vento e il Merlo mi aiutano a Raccoglierli e tenerli a Memoria. Ne ho imparati alcuni che vengono da oltre i Confini della Foresta, perfino quello del Mare.

– Bene, bene -, rispose l’Orso.

– È ora di procedere -, intervenne la Serpe, brusca ma Gentile. – Siamo qui per dirti che è ora di cominciare a lasciarli andare. Come ti ha insegnato l’Acqua, tutto ciò che non lasci libero di Fluire è destinato a Morire. Hai Protetto i tuoi Canti con grande Coraggio, ma è Tempo per te di ridarli alla Foresta.

Il Silenzio calò nella Radura. L’Albero non sapeva cosa dire, e duellava con l’incertezza.

– Non temere -, aggiunse l’Orso, bonario. – Non li dimenticherai, perché la tua Memoria è quella della Foresta stessa. Devi solo avere il Coraggio di rimetterli in Circolo, cosicché tutta la Foresta possa giovare del tuo stesso Vigore.

– Lo farai? -, incalzò la Serpe.

Il Silenzio sembrò durare a lungo, come se il Tempo si fosse fermato nella Scelta del giovane Albero. Poi, le sue Foglie si distesero, e il Fruscio di una Canzone del Vento iniziò a soffiare in ogni direzione. Gli Alberi della Radura ne sentirono il tocco delicato, e si sentirono Svegliati da un lungo Sonno.
La Serpe saggiò di nuovo l’Aria con la lingua.

– Molto bene. Hai compiuto un nuovo passo. Ci vedremo ancora, Cantore-di-Sogni.

Senza dire altro, i due Custodi si allontanarono fino a sparire dalla Radura. L’Albero, fatta la sua scelta, continuava a Cantare con Gioia rinnovata.

– Nessuno può Ricevere senza Donare in Cambio -, sussurrò il Cuore echeggiando le Parole dell’Acqua.

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C’era una volta,
in una morbida Notte di pallida Luna, una Radura immersa in un piacevole Tepore. Gli Alberi restavano ad ammirare il Cielo dal profondo delle proprie Radici, Sognando di Tempi e Luoghi che avevano visitato solo da Semi, e il cui Ricordo adornava i profondi canali nei Tronchi in cui scorreva, lenta e rigogliosa, la morbida Linfa.
Mentre gli Animali dormivano profondamente, assopiti dal lieve fruscio del Vento che da Est portava la Grazia del fresco Profumo di Fiori sconosciuti, la Terra li cullava nel lento Pulsare del suo Cuore di Fuoco liquido, e la Luna spandeva il suo Bagliore diafano nel Cielo, abbracciando tutta la Foresta in uno Spazio di Quiete.

Solo la Quercia al centro della Radura, cresciuta a velocità straordinaria per la sua Specie, restava attiva senza scivolare nel Sonno. Dalla visita dell’Orso e del Serpente, la sua attenzione si era concentrata quasi esclusivamente sulle piccole nuove Gemme che erano spuntate dall’immenso Desiderio di Donare al Mondo qualcosa di nuovo: i Fiori che aveva visto nello Specchio sotto la Terra. Come era stato nell’Inverno, quando la sua totale Attenzione era stata rivolta alle Radici e al loro percorso, ora era rivolta a ciò che i suoi Rami avrebbero mostrato al Cielo, Alti ed Eretti in tutta la loro Bellezza.
Da molti giorni, mentre il Calore cresceva e i Raggi-del-Sole riprendevano la spontanea Allegria del loro Coro Multicolore, sbiadita lungo il Grande Buio, la Quercia era perfettamente Assorta nel suo compito. Nei Fiori-Futuri che si sviluppavano lentamente, le Prime della sua breve ma straordinaria Vita-come-Albero, riversava ad uno ad uno i Canti imparati lungo le Stagioni, portati dal Vento e dal suo fido Compagno, il Merlo, e raccolti chissà dove nel vasto Mondo.

Quei Fiori ancora non Nati, che si realizzavano da un Ricordo vago ma perfetto, crescevano negli Echi delle Onde del Mare, della Danza delle Nuvole nei Cieli più Alti e Puri, dei Venti impetuosi che spazzavano la Cima della Grande Montagna a settentrione. Quella Cima così lontana, che mutava con le Stagioni solo nei colori che rifletteva, e che restava sempre vestita del suo Manto Regale, completamente candido in Inverno, e striato d’Oro d’Estate.
L’Albero l’aveva osservata tante volte, al mutare dei Cicli, ed era diventata un Simbolo di Ciò-che-non-Muta, che si riveste ad ogni Passaggio di un nuovo colore, di nuovi caratteri, ma resta sempre Se Stesso. Si era reso conto di esserle molto simile: la sua Cerca, prima della Casa del Cuore, poi della sua Voce nei Canti del Mondo, lo aveva cambiato profondamente, donandogli grande Energia e Forza per Crescere verso il Cielo, ma nel profondo sentiva di essere ancora quel piccolo Seme che si era svegliato nel Buio-sotto-la-Terra; di essere il Germoglio che era stato chiamato Cercatore, che aveva affrontato Tempeste e ammirato Albe di incomparabile Bellezza; di essere l’Albero che aveva raccolto instancabile Canti e Memorie fino a quel punto del Percorso.

Riversò tutto questo nel suo ultimo Canto per i Fiori Nascituri, tutto ciò che era stato da Seme a Foglia, tutto ciò che aveva Raccolto e Donato in cambio, tutti i Guardiani e le Intemperie che aveva incontrato. In quell’ultimo Canto, i Fiori furono destati come lui era stato destato dal Cuore, e sbocciarono nell’arco di un Battito: i piccoli Fiori dal colore Vermiglio, coronati di Verde, impazienti di Raccogliere la Forza della Vita e trasformarla in nuovi Semi; e i lunghi, pendenti Fiori d’Oro, che già sussurravano il Canto di Creazione imparato nel Sogno.

– Sei diventato Cantore del tuo stesso Canto, ed Essi lo porteranno nel Mondo come il proprio. Come io ho fatto con te, e tu con me -, sussurrò il Cuore.

L’Alba sorse sui Colori dei Fiori come una Promessa, e li fece sfolgorare come Gemme preziose alla luce di un nuovo Mattino.

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C’era una volta
un assonnato pomeriggio nella Radura al centro della Foresta, avvolto dal prorompente calore del Sole in piena esplosione di energia, che riempiva in ugual misura Piante, Pietre e Animali di Gioia inespressa e di profondo Assopimento. Beandosi del Silenzio che regnava, la Quercia al centro della Radura si lasciava attraversare dai queruli Raggi-del-Sole, e insegnava loro i Canti appresi lungo l’Inverno, la maggior parte dei quali parlava di Gelo e di Neve, di Buio e di Riposo.

La Primavera non sembrava amare moltissimo quei Canti, e rimaneva concentrata sul proprio lento progredire, nell’aumentare delle Ore in cui la Luce baciava la Foresta e nella costante attività degli Animali e degli Insetti. L’Albero-Guardiano aveva da poco donato alla vista del Sole i propri Fiori, tanto a lungo attesi e Sognati, e nella Radura erano tornate le Api, di nuovo al Lavoro dopo un lungo Riposo.
Ogni Fiore che sboccia sotto il Sole è la promessa dell’Albero di perpetuare la Vita oltre se stesso. Così gli aveva insegnato l’Ape l’Estate precedente, quando era ancora un piccolo Germoglio: al contrario dei propri simili, che impiegavano anni per diventare Adulti, l’Arboscello aveva avuto una Crescita quasi miracolosa, ed ora stava già Eretto come tanti Alberi Anziani, conquistando di giorno in giorno più Forza ed Energia.

– Ora sì che sei diventato un vero Albero! -, gli aveva detto l’Ape, già Anziana a pochi mesi di età, quando era tornata nella Radura e aveva incontrato i suoi Fiori.
L’Albero ne era stato Felice, ma avrebbe voluto passare più Tempo con la sua vecchia Amica, che invece gli aveva confessato di essere giunta alla fine dei propri Giorni.

Un giorno, venne alla Radura un Insetto se possibile ancora ancora più stupefacente, con ampie Ali colorate d’Oro. Leggero e Grazioso, sembrava Danzare nell’Aria immobile senza una meta, ma con il più bel Vagare che il Cantore-di-Sogni avesse mai visto nella sua Vita, fatto di movimenti che erano lievi Pennellate di colore nel Cielo della Foresta. Al contrario dell’Ape, che annunciava il proprio arrivo con un Ronzio ben definito, l’Insetto-Danzatore non emetteva alcun Suono, e la sua Presenza sembrava fatta di pura Luce.
Quando si posò con esili zampe su una delle sue Foglie, l’Albero quasi non si accorse del suo Peso, e continuò ad ammirarne l’effimera Bellezza.

– Non ho mai visto un Essere dell’Aria aggraziato quanto te, nemmeno gli Agili Storni che volano insieme nel Cielo dando forma al Vento -, disse l’Albero, chiedendosi se l’Apparizione luminosa potesse sentirlo.

– Ti ringrazio, Guardiano della Foresta -, rispose l’Insetto, con Voce sottile, quasi un Sussurro. – Io sono una Farfalla. La mia Grazia celebra il lungo percorso che ho affrontato per diventare ciò che sono.

– Non sei sempre stata Esile e Magnifica come ora, vorresti dire? Vorrei conoscere il tuo Dono a questa Foresta: imparerò il tuo Canto, e potrai udirlo passare di Ramo in Ramo all’Infinito.

– Ti sono grata per questo onore -, rispose dolcemente la Farfalla, – ma non lo sentirò per lungo Tempo passare di Ramo in Ramo, perché la mia Celebrazione sarà breve, ma sarò lieta di insegnartelo.

Non attese nemmeno di finire la frase, il piccolo Insetto, e cominciò a Cantare una dolce Nenia, che parlava di Terra e di Gravità tanto quanto di Aria e di Leggerezza. L’Albero se ne stupì, perché nulla poteva essere pesante per una tale Bellezza, ma nelle trame del Canto sentiva la Vita della Farfalla, e vide che come lui era stata un Essere della Terra prima di trasformarsi dal Buio di un Bozzolo in ciò che era: il suo Canto parlava di Profondità e di Attesa, di Silenzio e di Sognare, di Pazienza e di Realizzazione.
Non aveva mai sentito un Canto tanto delicato da fargli fremere la Linfa di struggimento, e si scoprì incapace di ricrearlo in tutta la sua Bellezza.
Quando la Farfalla tacque, si sorprese nel dire:

– Per la prima volta da che raccolgo i Canti di questa Foresta, non so replicare ciò che Ascolto. Ho Cantato con le Onde del Mare e con le Profondità della Terra, ma non riesco a rendere Giustizia alla Bellezza delle tue Note.

– Hai mai Celebrato la Bellezza della Vita come se fosse l’ultimo Giorno che vivi?

Il Cantore-di-Sogni stette in Silenzio per lungo tempo, lasciando che gli Echi del Canto facessero vibrare di nuovo le sue Foglie.

– Ho Cantato in molti modi, con Coraggio e con Paura, con Forza e con Fragilità, con la Solidità della Terra e con la Leggerezza dell’Aria, ma mai come se fosse il mio ultimo Canto. Sono Figlio di una Stirpe di Signori delle Foreste: la mia Specie vive molto a lungo.

– Il mio, invece, è il Canto di chi Celebra il non poter Cantare a Lungo, e per questo ne Gioisce all’estremo, in ogni minima Goccia, perché sa che finirà molto presto. Per imparare il mio Canto, dovrai imparare a Onorare il Momento che Fugge.

Non disse altro, la piccola Farfalla dalle ali d’Oro, e ricominciò a Cantare. L’Albero si immerse profondamente nell’Ascolto, e vide altri mille Semi come era stato crescere sui Rami di altrettanti Alberi-Madre; vide ogni sua Foglia nata e cresciuta cadere come avevano fatto le prime in Autunno; vide i propri Rami spezzarsi e cadere; vide il proprio Tronco, ora possente, avvizzire lentamente fino a spegnere le profonde Correnti di Linfa; vide le Radici smettere di trarre Forza dal Terreno, e lasciarsi mescolare alla nera Terra.
E vide crescere e Continuare un’infinità di altre Vite dai propri Resti, così come dai Frutti che ancora non avevano visto la Luce nascere e Prosperare nuovi Germogli, Arboscelli, e Alberi Anziani.                                                                                                                          Vide la Bellezza della Vita che non Muore, e la Bellezza della propria, che era destinata a finire come era cominciata, Sognando nel Luogo-Senza-Tempo, e un nuovo Canto sgorgò nella sua Linfa, l’Eco del Canto della Farfalla che Vibrava dentro di Lui, Celebrando tutta la Gioia e la Fragilità di essere Vivi.

– Lasciarsi Vivere e Morire in ogni Respiro, questa è l’Essenza -, sussurrò la Farfalla mentre continuava la sua Danza sfiorando il morbido Polline dei Fiori Dorati.

– Ecco, oggi Canti il tuo Canto più Profondo -, le fece Eco il Cuore, e l’Albero sentì nei Fiori Vermigli svegliarsi di nuova Vita, quando la Farfalla vi sparse Polvere d’Oro, volteggiando al Ritmo dell’Invisibile.

La Radura si ammantò di nuova Pace, quando il Canto si spense di nuovo, e il Silenzio suggellò la Gioia della Celebrazione, mentre la Farfalla continuava a Danzare nell’Aria impalpabile.

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C’era una volta
una Notte silenziosa, attraversata da una leggera, fresca Brezza che cullava i Rami degli Alberi di una grande Foresta. Accarezzati dal Vento frizzante, i Rami fremevano con vigore, e il loro Suono continuo ricordava quello del Mare: come le Onde, non si fermava, e spazzava con garbo incessante ogni Foglia, ogni Nido, ogni Fiore e ogni Tana.

Al centro della Radura, l’Albero che era stato chiamato Cantore-di-Sogni godeva del placido massaggio dell’Aria in movimento sulla Corteccia, e si beava del tepore della notte sotto un Cielo popolato di Stelle sfavillanti. La Luna, al suo punto più Oscuro, non si mostrava nella Volta privata del suo Bagliore, e lasciava che il proprio Ricordo aleggiasse nel Buio.
Nella Radura, tutto si muoveva al Tocco impetuoso del Vento, che animava anche il più piccolo filo d’Erba di nuova Energia; solo la Pietra poco lontana dal Tronco dell’Albero, pur toccata ripetutamente dal Soffio incessante, restava immobile come se non ne venisse turbata in nessun modo.

Improvvisamente, l’Albero si rese conto di aver fatto conoscenza con molti abitanti della Radura, ma di non aver mai conversato con la Pietra, che pur era l’Essere a lui più Vicino. Se intorno a loro infatti tutto Cambiava, anche ad alta Velocità, la loro comune condizione era quella di sperimentare un piccolo Spazio in cui lasciar durare tutto ciò che faticava ad essere Fluido e simile a Sé.
Cercò la sua Consapevolezza nel suo Corpo, così vicino al proprio, tanto da poterlo Toccare con una Radice vicina alla Superficie, scoprendone una porzione sommersa nel terreno: trovò una Coscienza simile a quella della Terra, perennemente a contatto con il Tempo-del-Sogno.

– Mi è concesso molto Tempo per Osservare Ciò-che-Muta sotto il Cielo -, disse una Voce sussurrante e profonda. – Nonostante questo, cominciavo a chiedermi quando ti saresti accorta di me, giovane Quercia. Ti ho vista scavare dalle profondità come piccolo Germoglio, e ho ammirato la tua Crescita con molto Piacere. Da molto speravo di poter Conversare con te.

– Perché non mi hai parlato prima, se lo volevi?

– Noi del Popolo-delle-Pietre apparteniamo alla Terra, e la nostra Voce è antica come quella delle sue Profondità. Non è facile udirla, per chi è abituato ai movimenti dell’Acqua e allo scorrere del Vento. Ricordi, quando eri un Seme, la sensazione di dimorare nel Tempo-del-Sogno e nel suo eterno Presente?

– Lo ricordo -, assentì l’Albero.

– Io, come tutti i miei simili, vivo costantemente in quel Tempo, e raramente me ne distacco. Chi vuole comunicare con Noi deve tornare a quello Stato, evadendo il Senso del Tempo che il Cuore scandisce con il Suo Ritmo, e ritrovando il Silenzio che sta tra Battito e Battito. Non mi avresti potuto Ascoltare, prima di questo momento: tornando alla Coscienza, dopo la tua Ricerca, ti sei permesso di Sentire di nuovo le Voci del Tempo-del-Sogno, e mi hai permesso di comunicare con te.

– Vorresti dire che sono io a darti la Parola? -, chiese il Cantore-di-Sogni.

– In un certo senso: io non avrei Parola, se tu non potessi esserne Cosciente. Questa Foresta non Canterebbe, se tu non potessi raccogliere e trasferire i suoi Canti. Quando fosti Seme, scopristi il Cuore nello spazio che divideva i suoi Battiti, e lo cercasti Fuori di te, ma trovasti solo Spazio Infinito, e nessun Luogo. Poi scopristi la tua Strada, e riascoltasti il Suo Canto in tutti quelli che hai Trasmesso. Ora, è Tempo di tornare Tutt’Uno con il Tempo-del-Sogno, e riscoprire che tu stesso sei l’Impulso e il Ritmo, e il Cuore Vive attraverso di te.

L’Albero intuiva che la Pietra gli stesse dicendo molto più di quello che potesse sembrare dalle semplici Parole, e intravedeva un grande Mistero negli Spazi che esse custodivano: si sentì Vibrare come non faceva da molto Tempo. Da quando, in Verità, si era Svegliato sotto Terra come Seme.

– Il mio Battito esiste solo nell’Orecchio di chi è pronto ad Ascoltare, e il mio Canto esiste solo nello Spirito che è pronto a Cantarlo -, sussurrò il Cuore, in sincrona risposta, dando vigore alla Vibrazione che l’Albero avvertiva.

Per la prima volta da molto, tra Battito e Battito non ci fu che Silenzio, e il Cantore-di-Sogni si accorse che il Cuore era lì, nel suo stesso Corpo e nella sua stessa Coscienza, che era nella Pietra e nella Radura, nelle Foglie e nel Cielo scuro della Notte, e il suo Canto era nei Mille-volte-Mille Canti che aveva messo in Circolo nella Foresta.
Si cullò nella dolce Pace della Presenza per un tempo che poteva essere Infinito.

La Pietra attese in paziente Silenzio, e quando si accorse che era giunto il Tempo, parlò di nuovo:

– Verrà un giorno in cui a tua volta dovrai attendere che un altro Essere si accorga di poter comunicare con te: il mio Dono per quel momento è la Pazienza, il saper dimorare nel Presente, in Attesa del momento in cui la sua Coscienza sarà pronta ad abbracciarti, e tu scoprirai un nuovo Canto che alimenti la Danza del Cuore. Allora, sarai un vero Guardiano.

L’Albero non rispose, ma la Pietra sapeva che aveva compreso, e che sarebbe stato Pronto.

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C’era una volta
al culmine della Stagione del Risveglio, sotto una leggera Pioggia che imperlava Foglie, Rami e Fiori di piccoli Cristalli impermanenti, una Radura che godeva del sonno leggero della Gioventù, pronta a scattare e a Fiorire appena fosse rispuntato il Sole caldo e luminoso che ne aveva ridestato le energie.
Raramente c’era Silenzio in quei giorni, ma la Tranquillità di cui la Pioggia ammantava la Foresta ne era un placido esempio, per la Quercia che era cresciuta oltre il Tempo e la Misura, ma conservava un animo solido e sereno nonostante la Gioventù. Le fervide Correnti che investivano la Terra di energia nuova e pura, i richiami insistenti degli Uccelli e degli Animali in Amore, e il Calore stesso del Giovane Sole avevano trasformato la Pace dell’Inverno in perenne Movimento. Perfino il Merlo e lo Scoiattolo, fidi e Saggi Compagni dei suoi giorni, avevano ceduto alla frenesia.

L’Albero, che pur sentiva dentro di sé il mutamento delle Correnti e si era impegnato con Gioia nella grande Creazione di nuovi Rami, Foglie e Fiori, ora godeva di un momento di Sollievo danzando sotto la Pioggia leggera, che riempiva lo spazio fino a poco prima gremito di Suoni e Brusii di ticchettante e monotona Calma.
A sud della Radura, un Albero dalla Chioma folta e dal portamento Regale apriva con quieta Eleganza i suoi Fiori al Cielo: impreziositi dalle dolci Gocce che cadevano leggere, i bianchi Petali sembravano emanare un’aura di Serenità che echeggiava spontaneamente nel Respiro del giovane Guardiano.

– Qual è il tuo Segreto, Maestro Biancospino? -, chiese la Quercia, grata di sentirsi pacificata.

– Perché dovrei avere un Segreto, mio caro? E riguardo a cosa? -, chiese una Voce delicata ma sonante, che sembrava confondersi con la Luce smerigliata della Pioggia. Ogni Parola dell’Albero dal Legno scuro e dai candidi Fiori sembrava rilucere come i Cristalli d’Acqua.

– Riguardo a questo -, sospirò la Quercia, godendo di quella sensazione di Benessere. – In questo Tempo in cui nella Foresta tutto è Movimento e Affanno, tu rimani perfettamente Sereno e Quieto. Nulla sembra scalfire la tua Presenza e la tua Forza. Come ti riesce?

Il Biancospino sembrò ridere delicatamente, mentre scrollava le foglie a ritmo degli impatti cadenti con la Pioggia.

– Mio caro, non ci sarebbe ragione di lasciarsi trasportare da ciò che non è nostro, e appesantisce il nostro Cuore. Io ho Spine appuntite su cui non potrebbe stare nemmeno una Goccia di questa Pioggia gentile senza spezzarsi, ma non le uso mai per ferire. Le mie Radici sono forti, quanto le tue, ma non temono di essere strappate e portate altrove, nemmeno dalla frenesia del Desiderio. I miei Rami ospitano le piccole Fate che vagano tra i Mondi, sussurrandomi Storie di luoghi sconosciuti, ma conosco molto bene il mio Posto, e non lo abbandono.

– Noi del Popolo in Piedi non potremmo abbandonare il nostro Posto nemmeno se lo volessimo. Come potrebbe questo aiutarmi? – chiese la Quercia, vibrando anche nelle più tenere Foglie.

– Forse non puoi spostarti come fanno gli Animali -, rispose il Biancospino con Dolcezza, – ma di certo non negherai di aver vagato a lungo con la Coscienza, in passato.

Nel Silenzio che calò, il Cantore-di-Sogni non seppe rispondere. Sentiva, nel profondo di un Luogo ancora mai raggiunto, che l’Anziano aveva colto nel segno. A lungo aveva vagato cercando la Casa del Cuore, nei primi tempi del suo Viaggio sopra la Terra; ancora, quando aveva ricevuto l’incarico di Custodire i Canti della Foresta, si era lasciato trasportare da essi senza prestare Attenzione a ciò che donavano al suo proprio Canto, sepolto in Silenzio fino allo sbocciare della Vita nei suoi propri Fiori.
Sì, a lungo aveva vagato senza comprendere che il suo Canto era quello dell’intera Foresta, e che Custodirlo significava farlo nuovo in ogni istante, lasciando che il suo Suono attraversasse Rami e Foglie, Tronco e Radici.

– Sì, a lungo ho vagato -, rispose.

I piccoli Fiori candidi del Biancospino sembrarono brillare, quando i Raggi-della-Luna si insinuarono tra le Nuvole per inondare la Radura di morbido Argento.

– Solo Vivendola si può essere davvero Custodi di una Storia Vivente. Tutto ciò che non Respira nel tuo Cuore, è solo un vuoto simulacro che testimonia l’Assenza -, sospirò l’Anziano.

– Ascolta, prima di affrettarti a Cercare. Poi Ascolta ancora, Custodendo il Silenzio delle tue Profondità. E Ascolta ancora, quando da esse emerge il Canto -, sussurrò il Cuore.

– Solo così viaggerai senza mai lasciare il tuo Posto -, concluse il Biancospino, godendo del dolce bagno di Luce che ora placava anche la Quercia, riportandola al Tempo-del-Sogno.

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Giorno 43

C’era una volta
il giorno in cui nella Radura comparve un Animale mai visto in tutta la Foresta, nemmeno dagli Alberi Anziani che avevano ammirato i secoli passare Sognando il mondo tra Rami e Radici. Ai margini della Radura, comparve da occidente costeggiando lo Stagno, e camminando cauto e silenzioso, come in osservazione.
Non era il solo ad osservare: l’attenzione di tutta la Radura – forse dell’intera Foresta – era rivolta interamente alle sue strane e sconosciute fattezze. Da qualche tempo la notizia del suo vagare nel territorio dei Custodi rimbalzava qua e là tra Foglie, Ali e Zampe, ma nessuno sapeva riferire molto più di ciò che sembrava francamente impossibile.

Si parlava di un Animale mai visto tra il Popolo-che-Cammina: si diceva che fosse ricoperto di una pelliccia non sua, per ovviare alla quasi totale mancanza di una propria, rivestendosi come del Bozzolo di cui si ricoprono le Pupe prima di mutare in Farfalla; che non sembrasse parlare linguaggi conosciuti, ma che si fermasse di tanto in tanto in un luogo, o ad osservare uno del Popolo-Verde, del Popolo-in-Silenzio, del Popolo-che-Cammina, o del Popolo-con-le-Ali, e traesse dal suo comportamento una strana sequenza di Suoni, in qualche modo affine a ciò che il Vento e il Merlo sapevano imparare e trasmettere; che non avesse Artigli, Denti, Veleno o la Forza per cacciare e raccogliere Nutrimento, ma che sapesse procurarselo come l’Orso, scegliendo secondo necessità. Di certo, nessuno aveva mai visto nella Foresta qualcuno Camminare su due Zampe a parte gli Uccelli, che però le usavano solo se necessario e preferivano le Ali.

Questo Animale, se davvero lo era, camminava eretto, assomigliando agli Alberi con Radici, Tronco e Rami; sapeva stare molto a lungo senza lanciare Richiami ai suoi Simili, sempre che ne avesse, somigliando quindi al Popolo-in-Silenzio; non aveva certo Ali per volare, ma i suoi Canti raggiungevano grandi distanze, e potevano raggiungere la complessità di quelli che il Vento raccoglieva dai più rinomati Cantori Alati della Foresta. Sopra tutte le cose, si sussurrava nella Foresta che questo nuovo arrivato avesse una capacità che poteva usare a volontà. Alberi, Pietre e Animali raccontavano gli uni agli altri che questo Animale sconosciuto aveva il potere che solo al Fulmine e alla Pioggia era concesso, quello di scatenare, controllare e spegnere la più terribile e salvifica delle Potenze: quella del Fuoco.
Sebbene non avesse danneggiato nessuna Vita con quella Forza, nessuno degli abitanti della Foresta ricordava con piacere il contatto con le Fiamme, quando si scatenavano nelle stagioni secche e calde, e chi ne sentiva i Racconti sperava di non doverli mai vivere.

Così, da giorni la Quercia sentiva parlare di questo Essere che vagava per la Foresta, accendendo piccoli Fuochi che sapeva spegnere con Maestria, e che Cantava a Foglie, Zampe e Radici in un modo che mai aveva osservato: con il Merlo e il Vento aveva raccolto e trasmesso molti Canti, ma sempre donati inizialmente dal Cantore stesso.
Questo nuovo Essere sembrava in grado di trarre il Canto direttamente da ciò che osservava, senza ascoltare quello del Cantore. L’Albero era molto curioso di conoscerlo e di Osservare questa sua capacità, e nonostante gli avvertimenti – a volte cauti, a volte impauriti – dei suoi Vicini, aveva davvero sperato di conoscerlo.

L’Essere-su-due-Zampe-Creatore-di-Canti-Custode-del-Fuoco si avvicinò lentamente, uscendo allo scoperto della Radura illuminata da un Sole caldo e avvolgente, avviato prepotentemente alla sua Apoteosi estiva. Si guardava intorno con evidente curiosità, procedendo lentamente, e sebbene si mostrasse interessato a tutti gli Anziani del Circolo, era chiaro a tutti che il suo obiettivo era il suo Centro.
Il Cantore-di-Sogni ebbe tutto il tempo di Osservare con Attenzione il suo strano Manto, che sembrava intrecciato come la Tela del Ragno, o i fitti intrichi di ramoscelli che il Merlo usava per il suo Nido; e le Zampe che non usava per camminare, con lunghe protuberanze che sembravano più Rami che Artigli. Lo incuriosivano il Naso, troppo piccolo per essere efficace come quello del Lupo, e le Fauci, troppo morbide per essere forti come quelle dell’Orso, ma di certo gli Occhi e le Orecchie – sebbene non fossero all’altezza di quelli del Gufo – sembravano particolarmente attenti e ricettivi.
L’Animale-su-due-Zampe, a sua volta, restò per lungo tempo ad Osservare la Quercia, forse registrandone le caratteristiche: chissà cosa pensava della sua Corteccia, o dei suoi Rami già nodosi.

Quando ebbe terminato, e un Silenzio incuriosito ancora aleggiava nella Radura, si rivolse alla Pietra e iniziò ad emettere i Suoni di una dolce Cantilena, in cui la Quercia riconobbe alcune caratteristiche del Canto-della-Pietra. Come faceva questo strano Animale a conoscere i Canti senza ascoltarli? Stava chiedendo alla Pietra di potersi accomodare su di Lei, Cantandola per Nome.
Quando Essa acconsentì, il Canto scemò e l’Essere-su-due-Zampe si sedette lentamente sulla sua superficie, tornando ad Osservare il Cantore-di-Sogni.

– Cosa fai qui? -, chiese bruscamente quello, senza cerimonie. Si accorse di essere scortese, ma in qualche modo il Bipede lo metteva a disagio. O forse, pensò, semplicemente lo invidiava per quella sua Capacità così particolare.

L’Animale sentì la sua richiesta, ma non rispose. Un’espressione interrogativa gli comparve negli Occhi, e il Cantore-di-Sogni realizzò con sconcerto che non sapeva Parlare.
Impaziente, raccolse alcuni Canti e fece qualcosa che non aveva mai fatto: li smembrò, e ne ricombinò parti diverse per comunicare la sua richiesta all’ignaro interlocutore.
Quando il Bipede ascoltò ad Occhi chiusi il sussurro portato dal Vento, le sue labbra si inarcarono verso l’alto, e sembrò Felice.
Cantò una risposta a sua volta, e la Quercia comprese chiaramente: l’immagine di una Ghianda che si trasformava in Albero al Centro della Foresta le assicurò che l’Animale era lì per lei. Cosa volesse, restava un Mistero.

Conservando la stessa espressione di Gioia, il Creatore-di-Canti si alzò e si avvicinò al Tronco dell’Albero, cantilenando una richiesta di permesso. Quando gli venne accordato con l’immagine di un Fiore che sboccia, levò una Zampa e la avvicinò fino a Toccare la Corteccia.
La Quercia sentì che in quel Tocco c’era la stessa Potenza dei Canti di quella Creatura, che erano la sua vera Forza, e il suo Canto le comunicò il vero motivo per cui era venuta lì: stava chiedendo di imparare a Parlare.

– Insegnerai la Parola a questo Figlio, e lui ti insegnerà ad essere un Creatore-di-Canti -, sentenziò il Cuore.

Non era una richiesta: era un comune Destino.

Indice

“Corpo, Suono, Parola: l’arte della Narrazione che cura”

Secondo alcune ricerche, nel rapporto tra un bambino e un adulto si scambia una narrazione ogni 7 minuti (Kottler): si potrebbe sostenere, come fanno alcuni studiosi, che il pensiero simbolico-narrativo sia alla base di tutte le attività umane, fin dagli albori della specie (Bruner).
Fin da quando le prime comunità hanno cominciato a formarsi e stabilizzarsi, esso è insito nella comunicazione a tutti i livelli: comunichiamo per raccontarci e raccontiamo per comunicare, per costruire esperienze condivise.
Fin dal remoto tempo dei nostri progenitori preistorici, usiamo un complesso sistema di interconnessioni e sinergie per mettere in contatto il nostro mondo interno verso l’altro, il mondo, l’Altrove.

Il Corpo, sicuramente, ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita della comunicazione umana, non solo come limite anatomico, ma anche come stimolo organizzatore: senza le strutture adatte, non ci saremmo spinti oltre una comunicazione basata su poche e ambigue informazioni veicolate da gesti e vocalizzazioni piuttosto grezze.
Per i più prossimi antenati della nostra specie, i Neanderthal, l’esigenza di coordinare gruppi di individui in un più veloce ed efficace sistema di comunicazione ha portato alla constatazione che il corpo non basta da solo a veicolare efficacemente un sistema complesso di informazioni, ma che contemporaneamente ne costituisce la base imprescindibile: è il mio vissuto somatosensoriale che, per primo ed ultimo, devo valutare e sintetizzare, per poi renderlo comunicabile.
Paradossalmente, per raccontare il vissuto del corpo, il corpo stesso non basta, e allo stesso tempo senza di esso non c’è nulla da raccontare.

Qui interviene il Suono.
Lo sanno bene gli animali, ognuno dei quali ha stabilito una propria forma di comunicazione basata sull’aspetto non verbale e su quello paraverbale, in diversa misura e complessità.
Le api danzano e cantano per comunicare ai propri simili il corso del sole, la posizione delle risorse, eccetera. I mammiferi hanno sviluppato forme sempre più complesse di comunicazione sonora in cui l’Uomo è stato immerso ancora prima di esistere, lungo tutta la linea evolutiva. È così che il racconto di noi è prima Canto, e solo dopo Parola: una musilingua fatta di corpo e suono puro (Mithen), che ritorna nel lattante che si esercita verso la parola, nel canto sacro e nel suono primordiale i cui echi impregnano la mitologia di tutti i popoli.

Con il tempo, e con l’evoluzione di sistemi sociali sempre più complessi e organizzati, dal puro suono nasce la Parola, espressione profonda dell’evoluzione dei suoi portatori. Le Storie si trasformano non più in cronache e descrizioni, ma in simboli che evocano e richiamano l’esperienza del reale, capaci in qualche modo di ricreare la realtà stessa. Pur distaccandosi dal puro suono a favore di un approccio più descrittivo, il linguaggio non fa che aumentarne il potere: fa sì che nasca e si organizzi il pensiero, e con esso la capacità dell’uomo di astrarsi, letteralmente “farsi vicino alle stelle“, agli Dei. Con la Parola l’uomo rende se stesso simile al Creatore, partecipando alla sua coscienza. 
Dal suono ancestrale delle caverne, in cui molteplici significati restavano ad aleggiare come fantasmi, dallo spazio sacro in cui nacquero le pitture rupestri e le voci degli sciamani, l’uomo va verso gli spazi della civiltà e della razionalità, portando con sé un potere immenso ma indistinto che sa di poter districare e organizzare, e con la Parola completa la triade che dà vita agli Incantesimi, alla Legge, al Pensiero.

Immaginate i nostri antenati, come le api che tornano all’arnia, tornare da una battuta di caccia e reincarnare in corpo e suono il proprio viaggio e le peripezie incontrate nel frattempo ai propri compagni e compagne, alla luce di un fuoco notturno.
Intorno a quel fuoco si susseguono i canti di innumerevoli vite, ognuna alla scoperta della propria voce e del battito del proprio cuore, e lentamente imparano a raccontare, a trasformare le nubi della Memoria in storie che la riportano continuamente in vita, fino a creare essi stessi nuovi mondi e nuove realtà.

È questo il senso dell’antica arte del racconto, diffusa in tutto il mondo come attività sacra, di tradizione e cambiamento. In tutte le culture il narratore custodisce la memoria della tribù, e ne evoca i mostri, le sfide, gli eroi e le mete intorno al fuoco.
Nel non-luogo del “c’era una volta“, che evoca e ricrea il tempo della memoria e del sogno, riscopriamo noi stessi e il canto del nostro cuore, ci prendiamo cura del nostro destino e ci mettiamo al servizio della comunità.

“Ben-essere al Castello” Piovera 2020

Siamo molto felici di essere stati invitati come espositori e conferenzieri al festival “Ben-essere al Castello”, che domenica 13 settembre riunirà diverse realtà e iniziative all’insegna del benessere, della consapevolezza e del vivere naturale al servizio dei visitatori.
L’evento, che si tiene nella stupenda cornice del Castello di Piovera, in provincia di Alessandria, è alla sua quinta edizione, ed è sempre più in crescita in quanto a iniziative e servizi che offre al suo interno.

Sarà la narrazione come forma di cura e sostegno per il singolo e la comunità ad avere ampio spazio nella conferenza dal titolo “Corpo, Suono, Parola: l’arte della Narrazione che cura” che terremo in mattinata nell’Area Prato, e nel laboratorio per bambini che si svolgerà nel pomeriggio nell’Area Fossato.
Per chi non potesse partecipare a queste due attività, per tutto il corso della giornata saremo presenti con il nostro stand in cui sarà possibile conoscerci ed usufruire di consulenze individuali basate sui nostri servizi (comprese le storie per i bambini che non parteciperanno al laboratorio!).

Se si sogna da soli è solo un sogno, se si sogna insieme è la realtà che comincia.

Anonimo

Passate a trovarci, vi aspettiamo nel nostro stand a braccia aperte!