I Polmoni e la Vitalità

Come forse avrete notato questa settimana, i polmoni, tra gli organi corporei, così come il respiro tra le funzioni, sono spesso dati per scontati (e la lista, vi assicuriamo, non finisce qui!). 
Gli esercizi vi avranno certamente aiutato a prendervene cura e a percepirli anche quando non ci stavate pensando, e a rendervi conto del fatto che, senza esercitare un’attenzione volontaria, ci immergiamo completamente nelle azioni, dimenticandoci della basilare – ma potente – sensazione di essere vivi.
È proprio il senso della vitalità, da un punto di vista energetico, la qualità a cui sono legati i polmoni. Proviamo a comprendere meglio come.

Partiamo dall’aria che respiriamo: essa è fatta di atomi ed essenze, la parte più impalpabile e rarefatta della materia, che provengono da tutto ciò che abbiamo intorno. Respirare è far entrare letteralmente la sostanza di cui sono fatte le cose e le persone, dal più minuscolo granello di sabbia alla più calda e massiva delle stelle. Di conseguenza, non sempre vogliamo o possiamo accettare il contatto e la relazione con ciò che stiamo inspirando (vi è mai capitato di iniziare a starnutire senza motivo?).

Il torace, il luogo fisico in cui “vivono” i polmoni, è una regione altamente influenzata dalle modalità relazionali di ogni individuo, basti pensare che in quanto “gabbia” racchiude e protegge, ma un’eccessiva rigidità, dei muscoli e del carattere, porta ad un torace compresso e contratto, che può avere difficoltà ad essere libero sia nei movimenti che dai propri condizionamenti, fino ad una difficoltà di espressione fluida delle proprie emozioni e della propria affettività.
Le connessioni del polmone fisico sono l’estensione di quelle del diaframma e del cuore: oltre al loro ruolo fisiologico fondamentale, i polmoni hanno anche una parte da protagonisti in un sistema meccanico teso in sospensione dalla parte alta del torace e dalla colonna cervicale (fino alla base del cranio) che ne fa una sorta di “galleggianti” al contrario. La loro libertà è direttamente collegata alla libertà (meccanica, chimica ed energetica) dell’intero torace, della spalla, del collo e della testa.

Partendo dal fatto che in generale la pulizia degli organi è uno dei precetti fondamentali per prendersi cura di sé, e nelle prossime settimane vi accompagneremo in questo, di certo la pulizia dei polmoni è una delle più importanti.
Possiamo facilmente renderci conto che non basta lavarsi per definirsi “puliti”. La pulizia vera e propria inizia sempre da dentro, innanzitutto dall’energia che ci attraversa: essendo nella trattazione dei polmoni facciamo riferimento alla qualità sottile, allo spirito vitale delle cose, ciò che nei testi antichi è definito prana (sanscrito), pneuma (greco), qi (cinese), ruah (ebraico), awen (gallese), eccetera.
In definitiva, comunque vogliate chiamarla, essa è l’energia che ci attraversa, il collegamento energetico tra lo spirito e la materia, tra i piani sottili e quelli fisici.

Avrete sicuramente visto spesso i polmoni rappresentati da un albero (ed in effetti il sistema dei bronchi e dei polmoni viene anche chiamato albero broncopolmonare) che si nutre dalle radici per poi irradiarsi verso l’esterno. I nostri polmoni lavorano in qualche modo al contrario: prendono energia dall’ambiente esterno (ovvero, hanno radici nel naso) e ci consentono di incamerare ossigeno e di espellere anidride carbonica (ovvero, le loro foglie sono negli alveoli). Curiosamente, l’albero polmonare e l’albero vegetale hanno funzioni inverse ma profondamente interconnesse: il primo usa l’ossigeno e fornisce anidride carbonica, che il secondo utilizza per fornire a sua volta ossigeno. In altre parole, viviamo in un ciclo vitale comune ogni volta che respiriamo.
Come tutti gli alberi, il sistema polmonare ha bisogno d’acqua per lavorare (il vapore acqueo che si deposita al livello degli alveoli) e crescere rigoglioso e funzionante (la faringe e la laringe attraversate dall’aria).
Ripulire i polmoni significa rafforzare la vitalità, il coraggio e la gioia, in una parola la fiducia, che si contrappongono a tristezza e paura.

I polmoni rappresentano infatti, nella loro componente negativa, l’energia della tristezza profonda e dei forti traumi: spaventi improvvisi, cambi repentini, malinconia e lutti di diverso genere (un lutto non è solo la morte di una persona cara, ma lo è anche la fine di una relazione, che sia affettiva o lavorativa, se non addirittura l’abbandono di una parte di noi).
Il complesso processo di elaborazione del trauma (di qualunque genere) ha in qualche modo a che fare con la raffinazione e la digestione, ovvero la capacità di incorporare ciò che di benefico e utile ci dà l’evento/processo, e di dissipare e disperdere ciò che invece può diventare sostanza tossica.
Non respirare, ovvero non alternare le fasi di assimilazione e di espulsione, in questo processo, significa arrestare il corso stesso della vita. Nonostante infatti il sistema polmonare sia l’ultimo che l’organismo utilizza nello sviluppo embriologico (respiriamo solo alla nascita, non prima), e il suo fallimento segni la fine della vita (ma l’ultimo a funzionare è sempre il cuore), passiamo molto tempo a bloccare le sue qualità e il grande dono che ci dà ad ogni ciclo di funzionamento: quello di renderci vivi attraverso lo scambio energetico con il mondo, in modo così immediato e semplice da essere la prima delle più potenti medicine presenti in natura di cui non usufruiamo.
Non a caso la respirazione, come abbiamo detto tante volte, è la base di ogni tecnica di consapevolezza e di guarigione del mondo.

In aggiunta all’esercizio che vi abbiamo mostrato in video, perciò, oggi vi proponiamo una semplice ma potente tecnica di pulizia dei polmoni:

Prendetevi qualche minuto, posizionandovi in un ambiente tranquillo, eretti, con i piedi paralleli a una distanza uguale alla distanza tra le spalle. Trovate una posizione comoda ma stabile, mantenendo morbide le ginocchia e le braccia rilassate.
Quando ve la sentite, iniziate a ondeggiare avanti e  indietro le braccia, partendo con il movimento dalla spalla, proseguendo al gomito, e successivamente ampliate il movimento come quello di un pendolo, lanciando le braccia in alto e lasciandole ricadere senza irrigidirle, proseguendo verso dietro e lasciandole ricadere di nuovo. Lasciate fare al peso del vostro corpo: lentamente, noterete che anche il viso inizia a seguire le mani che si sollevano sopra la testa, e si flette verso lo sterno quando le braccia proseguono all’indietro.
Seguendo il movimento pendolare degli arti superiori, anche le ginocchia dovrebbero iniziare spontaneamente a piegarsi e stendersi a ritmo con l’oscillazione.
Quando avete trovato un ritmo adeguato, iniziate a regolarizzare il respiro, inspirando con il naso quando portate le braccia in alto, ed espirando con un soffio dalla bocca quando le braccia vanno in basso e indietro.

Potete ripetere questo esercizio inizialmente per la durata di 20 oscillazioni, e ripetendolo ogni giorno iniziare ad aumentare fino al vostro limite, rispettando le reazioni del vostro corpo.
Dopo questo esercizio potreste avere colpi di tosse o catarro, che verrà espulso naturalmente dopo la rivitalizzazione della sfera polmonare.

Insieme allo stretching della pleura e all’esercizio di respirazione diaframmatica che abbiamo mostrato questa settimana (li trovate anche qui sotto), avete ora tre strumenti che vi potranno aiutare in tutte le situazioni di sovraccarico, siano esse di origine energetica, emotiva o fisica, a carico del sistema polmonare.
Provare per credere, e per qualsiasi confronto commentate direttamente l’articolo o contattateci direttamente: saremo felici di dialogare con voi!


Buon weekend

Luca e Nicoletta

Osservare la Trama

“La vita è come una stoffa ricamata della quale ciascuno può osservare il diritto e il rovescio: quest’ultimo non è così bello, ma più istruttivo, perché ci fa vedere l’intreccio dei fili”.
(Arthur Schopenhauer)

Se avete mai cercato di raccontare una storia (quella del film appena visto, ad esempio) o un aneddoto ad un’altra persona, e di certo l’avete fatto, sapete che istintivamente l’essere umano tende ad organizzare la propria narrazione attorno ad alcuni elementi più importanti, molto spesso ma non necessariamente disposti in ordine cronologico: tutto questo, utilizzando una parola molto interessante, viene definito trama.
La parola è in qualche modo polisemica, ovvero definisce diversi contesti: può essere utilizzata per descrivere i contenuti salienti di una storia, o la struttura di un tessuto, o ancora di una serie di pensieri. In ogni caso, con essa si definisce la struttura interna ad una rete di relazioni sviluppata nel tempo e/o nello spazio.

Forse non ci pensiamo troppo spesso, ma è molto interessante che in anatomia e in istologia, per descrivere l’organizzazione delle cellule in insiemi organizzati si usi il termine tessuto: gli apparati e i sistemi di cui si compone un corpo animale o vegetale, infatti, sono composti da diversi tessuti, ovvero organizzazioni di cellule simili operanti per uno scopo comune. Nel corpo umano si riconoscono quattro macrogruppi di tessuti: epiteliali (l’epidermide, gli alveoli polmonari, le mucose del tratto gastrointestinale, ecc.), connettivi (ossa, cartilagini, tendini, legamenti, t. adiposo, sangue, linfa), muscolari e nervosi.
Diversi tessuti possono unirsi a formare organi: il cuore, ad esempio, è composto da tessuto muscolare striato, da membrane connettive, da un epitelio che riveste le camere interne, e da un sistema nervoso piuttosto complesso e largamente autonomo.
Ogni tessuto, però, mantiene caratteristiche proprie di trama, densità, consistenza e palpabilità (nei limiti del possibile, ovviamente): un muscolo teso (ovvero in cui la componente connettivale abbia diminuito la sua elasticità) ha una diversa qualità tattile rispetto ad uno contratto (ovvero in cui la componente muscolare abbia aumentato la sua attività… ricordate i ponti actina-miosina?). Così un fegato, o un rene, o una membrana di rivestimento. Una mano allenata può percepire (o auto-percepire) i cambiamenti nella trama tissutale e nella consistenza, densità e disposizione del tessuto, fino a riconoscere l’impronta di un evento traumatico (un po’ come quando cerchiamo le chiavi in una borsa senza guardare, e le riconosciamo al tatto): è in questo modo che il nostro corpo immagazzina, riconosce e rielabora attraverso i l’attività sensoriale ciò che vi si imprime.
In qualche modo, tramite i nostri sensi, possiamo rileggere la storia del nostro corpo (o di quello di un altro, se ne siamo capaci) dalla trama che esso svela nella sua organizzazione: chi di noi non ha mai riconosciuto la stanchezza di un amico dalla sua espressione, o il ritorno di un vecchio ricordo gioioso nel suo sorriso, nel suo respiro e nella sua voce, o ancora sentito attraverso il tono della sua muscolatura qualche preoccupazione o grande gioia?
Nonostante questa capacità si possa affinare, è qualcosa che tutti noi possediamo per natura.

La prossima volta che incontrate un amico, provate a “leggere”: riuscite a indovinare come si sente, dalla trama che rivela il suo corpo?

Da un punto di vista narratologico, la parola trama identifica in modo ambiguo due distinte caratteristiche di una storia: l’intreccio, che gli anglosassoni chiamano plot (piano), ovvero la sequenza narrativa, non necessariamente cronologica, degli elementi della storia, e la fabula, parola latina da cui è arrivato il termine italiano favola, che indica l’ordine cronologico dei fatti, indipendente dalla presentazione del narratore.
Si potrebbe dire che la maggior rappresentazione di una delle due, anche se fondamentalmente indistricabili, delinei il carattere del narratore, o le sue esigenze: fare maggior affidamento sull’intreccio richiede attenzione per le relazioni tra eventi e personaggi, mentre seguire la più descrittiva fabula ci permette di ordinare in sequenza gli eventi e di analizzarli in modo più lineare.

La prossima volta che racconterete una storia, o seguirete la trama dei vostri pensieri, fateci caso: a quale dei due elementi fate più affidamento? Siete più affini all’uso dell’analessi (flashback) e della prolessi (flashforward), e alle libere associazioni, o alla disposizione rigorosa degli eventi?
Cosa succederebbe se vi esercitaste a cambiare prospettiva, e a dare più spazio a quella che istintivamente sfavorite?

Usiamo da sempre parole relative all’area tessile per descrivere la disposizione degli eventi in una progressione analitica o relazionale: parliamo di trama, di intreccio, di rete, di fil rouge e di filo conduttore, di nodi, di disegno, eccetera. Non a caso, le principali rappresentazioni mitologiche del destino e della conoscenza condividono queste caratteristiche: esemplari sono le Moire greche, le Parche romane, le Norne norrene, tutti gruppi di tre donne, a volte anziane, a volte di differenti età, che intessono la trama dell’Universo con singoli fili, ognuno corrispondente a una singola vita.
Delle tre dee greco-romane, Cloto-Nona è colei che fila, e stabilisce la torsione del filo, ovvero le inclinazioni e le caratteristiche strutturali dell’essere che nascerà (curiosamente, il suo nome riecheggia nel termine anglosassone cloth, tessuto), e spesso è dipinta come fanciulla; Lachesi-Decima, colei che misura e dispone, decide la lunghezza del filo e lo tesse nel grande arazzo, ed è associata a una donna matura; Atropo-Mortua, colei che finisce, è quella che decide il modo e il tempo della fine, e taglia il filo al momento opportuno (dal suo nome vengono il nome botanico della Belladonna, atropa belladonna, e la molecola atropina estratta dalla stessa pianta), ed è la più anziana delle tre.
In modo simile, le Norne, che filano, tessono e tagliano i fili ai bordi del Pozzo del Fato, alle radici dell’Albero del Mondo Yggdrasill, sono collegate a un ordine temporale: i loro nomi Urðr, Verðandi e Skuld significano rispettivamente ciò che è stato (il passato), ciò che accade (il presente), e ciò che sarà (il futuro).
Allo stesso modo, altre figure mitologiche ci ricordano il carattere tessile delle storie e del destino. Arianrhod, dea gallese, è collegata, oltre alla Luna e alle Stelle di cui è signora, al telaio con cui tesse la trama del Fato e alla Tela del ragno, associazione che si trova anche in un personaggio minoico probabilmente associato a una dea antica: Arianna-Ariadne (curiosamente, i due nomi sono molto simili), che nel mito del Minotauro agisce proprio come un ragno che con il suo filo salva Teseo dal Labirinto. L’associazione con il Ragno come Tessitore e quindi simbolo del destino è presente anche nella mitologia degli Ashanti del Ghana (e nelle sue modifiche afro-cubane), dove il dio-ragno Anansi, abile narratore (e mentitore!) tesse le sue storie come la bava della sua tela.

Queste figure ci parlano da secoli della capacità umana di riconoscere il filo che corre nell’intreccio di una tela che a volte confonde per la sua complessità, ma che è sempre recuperabile con attenzione e il giusto sguardo. A volte, siamo troppo immersi nell’analisi cronologica degli eventi per vedere un dettaglio che ci ha fatto perdere il giro (chi lavora all’uncinetto sa di cosa parliamo!); altre volte, siamo talmente immersi nell’intreccio da non renderci conto che abbiamo bisogno di mettere in fila i pensieri, le emozioni o le sensazioni…
È sempre tramite il corpo e la sua memoria, che possiamo recuperare l’andamento del filo rosso che unisce gli eventi della nostra fabula, costruendo un intreccio che è del tutto personale, unico e irripetibile: la trama della nostra esistenza fisica, emotiva, mentale guidata dallo spirito che tiene sempre d’occhio il nostro filo, anche quando noi lo perdiamo di vista.
A volte, basta solo guardare dall’altra parte dell’arazzo, cambiando prospettiva, e il filo riappare nella sua magnifica, unica sfumatura.