di Luca Cascone
“Le fiabe cercano di portare alla luce alcuni snodi essenziali del vissuto soggettivo. Esse fanno di tutto per lasciar parlare l’esperienza stessa del soggetto, con tutti i suoi errori e terrori, con tutte le sue angosce e paure, senza preoccuparsi di creare attorno ad essa un universo perfetto all’interno del quale ogni tensione si scioglie ed ogni conflitto si risolve. In tal senso la fantasia che alimenta le fiabe, ben lungi dall’essere la via di fuga dalla realtà e un frutto dell’illusione, è invece lo strumento per eccellenza attraverso il quale esse, pur restando racconti di finzione, parlano della verità stessa del soggetto“.
Silvano Petrosino – “Le fiabe non raccontano favole”
Dopo millenni passati a lasciare che la forza delle parole attraversasse lo spazio tra bocca e orecchio per scavare solchi invisibili nelle trame della nostra coscienza, stiamo lentamente sovvertendo l’ordine delle cose, cominciando a voler decidere cosa, come, quanto e quando possa insegnarci l’antica arte del Narrare.
Nel nostro tempo va molto di moda interpretare i contenuti, i personaggi, le situazioni delle storie. Fa gola a molti rianalizzare il mito, la fiaba, la poesia – in definitiva, l’immaginazione – scavando tra le parole, nella mente dell’autore, nelle relazioni tra i personaggi, per dissotterrare contenuti adatti a noi, al nostro tempo, alle nostre menti. Adatti, in fondo, a confermare una visione che ci corrisponda di più, che ci conforti e non ci confronti, che confermi la nostra visione del mondo e delle cose, con la beata illusione di stare scoprendo un tesoro sepolto sotto cumuli di terra e detriti, nascosto a noi dal tempo o dall’illuminato autore che ha lasciato tra le parole un codice, uno strumento segreto che aspettava solo di essere scoperto dal nostro sguardo, altrettanto illuminato.
Esiste un grande filone di lavoro su e con la narrazione che tratta quel tesoro come una reliquia: lo pulisce, lo lucida, ci mette una bella targhetta luminosa a fianco e lo espone in teche di vetro, come Biancaneve o Aurora addormentate. Solo che questa volta non c’è nessun principe e nessun magico bacio (o più fatalista ruzzolone giù dalla collina): c’è una efficientissima visita guidata al museo, in cui una guida ben vestita racconta alle persone quanto è stato difficoltosa la campagna di recupero del tesoro, e quanto siamo fortunati a poterne godere così, sotto un bel faretto luminoso, in una bella teca pulita.
E così le storie, come Aurora o Biancaneve, restano lì, in quella bella teca pulita, sotto la luce che ne mette in risalto ogni dettaglio, descritte con grande perizia da voci competenti, ma nessuno le può più sfiorare, toccare, saggiare con i sensi, e vengono lasciate in bella vista a deteriorarsi.
Ascoltare una storia è passato di moda. Molto meglio sezionarla, trovarne i risvolti e tratti nascosti, anche quando non ci sono. Perché no, molto meglio riscriverla perché sia più affine al nostro modo di intendere il mondo, la società, i temi del nostro tempo.
A questo, a tutto questo, va il mio più sincero e scarno “NO”.
No, non perché non sia utile per certi versi e in certi ambiti impegnarsi in un lavoro di interpretazione, ma perché esso pone un rischio di cui ultimamente sembra comodo non ricordarsi: ci allontana dalla realtà e dagli scopi della vita, e dalla nostra stessa umanità.
Sull’oggetto nella bella teca pulita possiamo fare milioni di ipotesi di uso e di destinazione, tutte valide e plausibili, ma se lo tocchiamo e cominciano ad usarlo, nei limiti che ci concede l’usura, qualcosa cambia radicalmente.
Immaginate di venire in possesso di un vecchio paio di calzature appartenute a un essere umano sconosciuto di cinquemila anni fa, o del secolo scorso: che sensazioni vi darebbe mettervi nelle sue scarpe? Vi sembrerebbero più morbide, meno sostenute, più larghe, come? Camminereste allo stesso modo, o cambiereste andatura? Quali domande vi sorgerebbero sul loro proprietario ormai dimenticato anche dal tempo?
Tutto questo non lo potreste fare se non mettendovi le scarpe ai piedi e cominciando a camminare. In questo, l’analisi avrebbe un posto davvero limitato.
Allo stesso modo è con la narrazione: il lupo di Cappuccetto Rosso perde qualcosa del suo potere, se resta solo un lupo? Deve per forza essere una maschera dell’ingordigia, della vita istintuale, della pulsione alla violenza, dell’invidia (tutte interpretazioni assolutamente valide) per acquisire senso? E soprattutto, a cosa, a chi serve leggerlo così?
Potremmo stare a discutere e speculare per ore sui miliardi di significati che può acquistare un personaggio. Chi è davvero Cappucetto, cosa rappresentava davvero Samvise Gamgee per JRR Tolkien, che senso hanno l’eterno viaggiare di Odisseo, e il restare di Penelope nella simbologia dell’inconscio?
In fondo, però, la domanda più importante resta una: queste letture-spiegazioni cambiano davvero la mia vita?
Probabilmente no.
Invece, per esempio, come ha alimentato la mia fiducia nel mondo da bambino ascoltare l’avventura di Cappuccetto raccontata dai miei genitori? Che valori mi ha trasmesso leggere nell’adolescenza della straordinaria fede di Samvise? Cosa mi dà (ri?)leggere Omero a trenta o cinquant’anni, e riconoscermi nella straordinaria umanità del dialogo finale tra Odisseo e Penelope?
Per questo, nei percorsi basati sulla narrazione che conduco, non si legge, ma si ascolta dalla voce viva, e per questo nei limiti del possibile non si interpreta, ma si riflette insieme sulle sfaccettature che hanno per ognuno un episodio, un personaggio, una storia.
Molto meglio per me frequentare le storie come vecchi amici: ci si siede insieme intorno ad un fuoco (anche metaforico), e si dialoga su ciò che sorge dall’esperienza, e non su “come dovrebbe essere”.
Così onoro i narratori che mi hanno preceduto nel mondo, senza volermi imporre sui loro sguardi, ma allo stesso tempo riempiendo i miei della meraviglia che mi hanno trasmesso.
Molto meglio per me lasciare ad altri le spiegazioni, e godermi l’immenso piacere di una delle più alte facoltà umane, quella dell’immaginazione poetica, che mi mostra gli infiniti volti della realtà senza la pretesa di insegnarmi nulla, ma trasmettendomi più cose di quelle che potrò mai sperare di conoscere analiticamente.
Il bello è che come in tutte le cose, la scelta resta mia.
Alle prossime parole.
Luca