Amare i difetti

Di Nicoletta Giancola

Se ti mostrassi i miei difetti, mi ameresti ancora allo stesso modo?
Recitava così il ritornello di una canzone che stavo ascoltando, quando ho riflettuto che questa domanda racchiude l’essenza di una paura piuttosto comune, ovvero la paura di mostrarsi per come veramente si è. Questo fa paura.

Non a caso, una delle paure più diffuse al mondo è parlare in pubblico, proprio perché la voce è l’espressione più pura, insieme agli occhi, di chi siamo veramente, è la nostra essenza.

Provate a rivolgere questa domanda innanzi tutto a voi stessi: riusciamo ad amarci nonostante ciò che noi vediamo come difetto?

Come sempre, se riusciamo a farlo con noi stessi, insieme alla costanza di farlo ogni giorno, decadrà la paura e il bisogno di rivolgere questa domanda all’esterno. Smetteremo di chiedere all’altro, che sia un genitore, un figlio, un marito, una moglie o un amico, di amarci per come siamo.
È una conquista difficile provare amore per se stessi, poiché amare è comprendere prima di tutto la molteplicità di aspetti di cui siamo fatti ed iniziare a vedere oltre tutte quelle caratteristiche di noi che non ci piacciono, cosa che normalmente ci viene naturale. È vedere le nostre qualità e gli aspetti che fanno di noi ciò che siamo, la nostra unicità, al di là che ci piaccia o meno.

Una semplice pratica è quella di soffermarsi ad osservarsi davanti allo specchio, se si tratta di una parte fisica, oppure si può osservare la qualità di una parte del nostro carattere che critichiamo, chiedendoci: quando e come è utile questo aspetto di me?
Ad esempio un’eccessiva rigidità nei cambiamenti può nascondere una capacità di portare avanti un obiettivo: allo stesso tempo, se emerge troppo non permetterà di adattarci ai cambiamenti necessari per portarlo a termine.

Ogni volta che riusciamo ad osservare diversamente un aspetto, e lo integriamo nel nostro campo di consapevolezza, proseguiamo con un altro e poi un altro ancora fino a farlo diventare un gioco in cui con leggerezza impariamo a conoscerci ed amarci di più.

La legge dell’analogia

Di Nicoletta Giancola

L’articolo di oggi ci porta a mettere in pratica letteralmente il significato del nome assegnato a questa rubrica: risvegliare l’esploratore.

Chi è l’esploratore? È quella parte che, quando eravamo bambini, ha iniziato a chiedersi il “perché” delle cose. È ognuno di noi.
Perché è necessario che si risvegli? Perché nell’uomo è insita la ricerca, la voglia di scoprire e di capire, ma quella fiamma spesso si affievolisce a tal punto che smettiamo di porci domande e di ricercare, sia attraverso la conoscenza intellettuale che esperienziale.

Tornare a vedere con gli occhi di un bambino” (cit.) è ricontattare quella purezza che permette di vedere le cose per come sono e accadono, e meravigliarsi di come possano farlo.
Mentre ero in viaggio verso una formazione, ieri mi è successo di incontrare una serie di rallentamenti in autostrada, che mi hanno permesso di notare con più precisione dove mi trovassi e cosa stessi facendo, allontanandomi dal semplice pensiero di percorrere una strada per arrivare a destinazione. Questo stato di maggiore quiete, a sua volta, ha fatto sì che osservassi i lavoratori in strada, ed in quel momento è sorta una domanda. Perché erano lì? Cosa stavano facendo? In realtà, era piuttosto ovvio, ma mentre mi incanalavo in un ulteriore restringimento di corsia, corrispondente ad un ulteriore rallentamento anche interno, è arrivata un’altra domanda: che analogia hanno gli operatori al lavoro in strada con il nostro corpo? 

Lo so, può sembrare un po’ strana come domanda, ma tutti gli eventi e tutto il mondo possono essere l’analogia di qualcos’altro, e a me piace provare ad intuire cosa sia.
La legge dell’analogia, una delle leggi universali che regolano il cosmo, si trova riportata sulle Tavole Smeraldine, il compendio di sapienza attribuito ad Ermete Trismegisto, e in breve viene descritta con le parole:

Come sopra – così sotto, come sotto – così sopra. Come dentro – così fuori, come fuori – così dentro. Come nel grande – così nel piccolo”.

In pratica, ciò che avviene dentro di noi influenza la realtà fuori di noi, e viceversa. Per capire il fuori dobbiamo vedere dentro, per capire il dentro dobbiamo vedere fuori.

E così, pensando che le grosse strade di collegamento vengono chiamate per analogia anche arterie, mi sono chiesta cosa potessero rappresentare i rallentamenti e i lavoratori.
Mi sono accorta che l’esempio più simile che sorgeva nella mia consapevolezza era quello del corpo, che rallenta il flusso sanguigno in una zona da riparare in modo da poter permeare il distretto e rilasciare gli elementi adatti alla riparazione tissutale, mentre altri elementi corpuscolari (per analogia, le automobili) continuano a scorrere all’interno dei fluidi nei vasi sanguigni (la strada), e laddove ci sia necessità di un intervento specializzato si fermano e si inseriscono nel processo di riparazione, come un mezzo di servizio. 
Questo è solo un semplice esempio di analogia. Di tanti altri avete sentito parlare molto spesso: è il caso dell’analogia tra forma di un cibo e forma dell’organo corrispondente, e anche di quella tra la forma dell’albero – che lavora con la produzione/scambio di ossigeno e anidride carbonica – e la forma dei polmoni – che producono/scambiano esattamente al contrario.

Quello che vi suggeriamo è di provare a farvi domande e di ritornare a giocare al gioco dei perché come fanno i bambini.
I loro perché, spesso surrealisti ma sempre dotati di un proprio senso, ci colgono il più delle volte impreparati. Quante volte ci capita di rispondere senza nemmeno pensare alla domanda? O rispondere con una frase fatta? O ignorarli nel modo più assoluto (magari distogliendoli dalla domanda)? 
Imparare a domandarci il perché delle cose ci aiuta a superare gli stereotipi e imparare a vedere il complesso dietro la banalità, ci porta a riflettere su di noi, sulla nostra vita e sulla natura dell’universo e per quanto possa apparire ai più una perdita di tempo, in realtà aiuta a riconnettersi alla parte più profonda di noi.

L’occhio di chi guarda

di Nicoletta Giancola

Quanto è difficile rendersi conto delle diverse possibilità di visione, e a cosa sono dovute?

Rendersi conto che la realtà che osserviamo è soggettiva e non oggettiva è tra le cose più difficili da tenere a mente ogni volta che ci relazioniamo con qualcuno. Quando ci confrontiamo non teniamo in considerazione che noi e il nostro interlocutore parliamo in base al nostro punto di vista, ma questo è fondamentale se vogliamo provare a comprenderci.

La realtà che osserviamo è soggettiva proprio perché sono i nostri occhi il punto di osservazione da cui parte la visione: paradossalmente, ognuno di noi vede, percepisce e registra lo stesso colore con una sfumatura unica, dovuta all’unicità strutturale e funzionale del suo proprio occhio.

Per visione si intende la percezione degli stimoli luminosi da parte di un organo sensoriale (appunto, l’occhio), e la loro trasmissione e successiva elaborazione a livello del cervello, con il risultato della “proiezione” interna di un’immagine, speculare all’oggetto. È la luce a stimolare le nostre cellule, che inviano di seguito impulsi elettrici che verranno tradotti ed elaborati per suggerirci ciò che stiamo vedendo.

Come può dunque essere oggettivo ciò che osservo se tutto dipende dall’elaborazione di ciascuno? E soprattutto se ciò che arriva all’occhio altro non sono che frequenze luminose?

Comprendete quanto pensare di far capire all’altro ciò che noi percepiamo senza considerare queste premesse possa essere un’impresa inutile e dispendiosa. Partiamo piuttosto dal ricordarci che il nostro punto di osservazione e di elaborazione è unico, esattamente come quello dell’altro, e se non si è disposti a provare ad accogliere ed ascoltare veramente allora la maggior parte dei confronti fatti sarà solo o un darsi ragione a vicenda o far prevalere uno dei due punti.

Se consideriamo inoltre che nel processo di elaborazione da parte del cervello sono comprese anche le esperienze vissute, sia in senso affettivo che mnemonico, ancora di più risulta che quando ci si comprende è un vero miracolo.

Un esempio che può tornarci utile per capire tutto questo è immaginare due persone in dialogo mentre percorrono insieme un sentiero in montagna. 
Anche trovandosi a fare lo stesso percorso, come detto sopra, ognuno di loro farà un’esperienza altamente personale: la visione del paesaggio, per quanto simile, sarà molto diversa e più o meno ricca di particolari.
Se poi ad un certo punto uno dei due decidesse di fermarsi, e l’altro decidesse di proseguire, sarà ovvio che risalendo la montagna la possibilità di ammirare e comprendere rispetto al proprio punto di osservazione sarà ancora più completa e ricca. Immaginiamo che il primo, fermo in una foresta, aspetti il secondo che intanto gode del cielo sgombro e dell’aria fresca del monte.
Ridiscesi, non gioverà a nessuno dei due discutere delle reciproche diversità, se sia meglio il bosco o l’alta montagna, ma probabilmente al primo farà piacere sapere che più in alto, seguendo un certo sentiero, il clima e il paesaggio offrono una diversa vista, e al secondo piacerà sentire il primo raccontare dei diversi particolari che non aveva afferrato. Se entrambi non tenessero in considerazione i diversi punti di osservazione, sarebbe molto difficile rispettare le reciproche differenze. 

Così, per cercare di avere una visione sempre più ampia, ci dobbiamo ricordare che occorre salire in verticale, senza dimenticarsi di ciò che si è osservato nei diversi livelli della risalita: solo così possiamo permetterci di comprendere sempre meglio sia l’altro sia il nostro stesso punto di vista.

A Corpo Libero: “I Piedi, il contatto con la Terra”

di Nicoletta Giancola

Il laboratorio di movimento chiamato “A Corpo Libero” nasce dall’idea di proporre un vero e proprio momento di movimento consapevole.

Quando si fa attività di movimento accade spesso che ci si ritrova a rincorrere i movimenti proposti senza aver tempo di ascoltare il corpo, e pretendendo che esso ci segui nella nostra idea di come vorremmo si muovesse. Se questa situazione è accompagnata da musica ad alto volume questa non ci permette di entrare dentro l’esperienza che alla fine risulterà più performativa e di scarico che di ascolto e cura.

Con le attività proposte all’interno di questo laboratorio, che seguono temi legati alle parti corporee o alla sua fisiologia, si vuole portare il partecipante a sperimentare un nuovo modo di fare movimento: quello di essere consapevoli sia nel farlo sia in ciò che il corpo vive e può fare durante. Vengono riconosciute così le connessioni che una parte del corpo ha con tutto il resto per giungere ad una sensazione di appagamento e integrità che, una volta sperimentata, sarà possibile portarla con sé nella vita quotidiana, perché avremo con noi il senso del come e non del cosa muovere.

Questa sera, in occasione del Solstizio d’estate, andremo a sperimentare la connessione che i piedi hanno con la terra. Essi ci fanno da base per poter percepire la gravità e la “messa a terra”, la stessa degli impianti elettrici.

I piedi sono infatti collegati al primo chakra, il chakra della base o della radice. Attraverso questo centro energetico sentiamo il corpo nella sua parte più fisica e lavorare sulla connessione attraverso i piedi ci riconsegna la possibilità di sentirci più ancorati alla terra e quindi ci sentiamo più dentro il nostro corpo, letteralmente più incarnati. 

Il risultato di questo? 

Una rinnovata capacità di sentire e sentirci e così la possibilità di ricollegarci a ciò che la nostra anima attraverso il suo veicolo, la macchina biologica, vuole comunicarci.

Un corpo libero di sentire è un corpo nuovo a cui non siamo più abituati e spesso può farci sentire cose che non ci piacciono o ci fanno stare male, ma è la via che l’anima ha per farsi ascoltare.

Il nostro compito è quello di condurvi alla comprensione dei suoi messaggi dopo avergli restituito la libertà di espressione e di movimento.

Che l’energia del sole possa sostenervi in questa scoperta.

Buon Solstizio a tutti e a stasera!